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6 Maggio 2020 | Racconti d'autore

Breve storia del colore verde

Testo tratto dal libro di Alessandro Vanoli “Primavera. La stagione inquieta” (Bologna, il Mulino, 2020)

A cura di Vittorio Ferorelli (Istituto Beni Culturali Regione Emilia-Romagna). Lettura di Marzio Bossi (associazione "Legg'io")

Di che colore è la stagione del risveglio? Ce lo racconta, con passo rapido e lieve, lo storico Alessandro Vanoli, nel libro che ha dedicato ai simboli, ai protagonisti e ai culti legati alla primavera. Ringraziamo per la lettura Marzio Bossi e l’associazione “Legg’io”.

Adesso ci siamo: lo abbiamo visto scorrere per secoli davanti ai nostri occhi, tra quadri, poesie, vestiti e giardini. Il colore della primavera: quello delle piante e della vita. È ora di raccontare pure la sua storia.
E se cominciamo davvero da lontano, diciamo dai greci, scopriremo che all’inizio è la storia di un’assenza: solo il bianco, il nero e il rosso paiono chiari e definiti. Gli altri colori sembrano invece incerti e più sfumati. Prendete il termine glaukós, per esempio, un colore molto amato dai poeti arcaici: bene, scoprirete che talvolta esprime il verde, talaltra il blu, oppure il grigio e perfino il giallo. Oppure chlorós, che se ne sta esattamente tra il verde e il giallo. Ci vorrà l’epoca ellenistica perché una parola come prasinós cominci a servire allo scopo, indicando tutti i toni del verde. Merito forse dell’influenza dei romani, che avevano invece ben pochi problemi a individuare quel colore: vìridis.
Un termine che veniva dal lontano indoeuropeo e che si legava all’idea di vigore, di crescita e di vita: vis (forza), ver (primavera), virga (verga), virtus (coraggio, virtù). Per molto tempo i romani il verde non sembrarono amarlo molto: non lo usavano per vestirsi né per colorarne gli oggetti della casa. Ci volle l’impero perché le cose in parte cambiassero: il verde si fece largo non solo nel vestiario ma anche nella pittura e nei mosaici, con la riproduzione di giardini e frutteti. Anche nelle corse dei carri divenne importante: all’epoca del basso impero, e poi per tutti i secoli di Bisanzio, i colori delle casacche dei concorrenti – e delle distinte tifoserie – furono solo due, il verde e l’azzurro.
Ma erano già secoli di cristianesimo, quelli, e il verde, in quella nuova tradizione, faticava a trovare solide radici. Nella Bibbia ebraica quasi non compariva e quando si parlava di yereq ci si riferiva quasi sempre all’erba e alla vegetazione e mai a un oggetto. Soltanto lo smeraldo faceva eccezione, menzionato due volte in elenchi di pietre preziose. Forse anche per questo i padri della chiesa non ne parlarono quasi, se non per riferirsi – poche volte – alla vegetazione. Inutile dire che anche per la liturgia l’assenza è la medesima. Peraltro solo dopo il Mille si cominciò a usare vesti differenti per le diverse feste: il bianco per Natale e Pasqua, il nero per il Venerdì Santo e i giorni di lutto, il rosso per la Pentecoste e per l’esaltazione della Santa Croce. E ci volle papa Innocenzo III, all’alba del XIII secolo, perché il verde facesse il suo ingresso tra i paramenti ecclesiastici: il verde, disse, «deve essere scelto per le feste e i giorni in cui né il bianco né il rosso né il nero siano adatti, essendo un colore medio fra il bianco, il rosso e il nero».

Forse questa rivalutazione aveva a che fare con la riscoperta di Aristotele, per il quale, in effetti, il verde era davvero un colore «medio». O forse più semplicemente erano gli usi germanici e il nuovo gusto per vestiti dai colori diversi: blu, verde, giallo, con associazioni vivaci e decise. Persino i terribili vichinghi, dicono le cronache, pare portassero tuniche verdi. Inoltre, proprio negli stessi secoli, il contatto con l’islam mostrava sempre di più nuovi lussi e nuovi gusti, anche nei colori. Nel Corano, infatti, il verde è sempre un colore positivo, associato alla vegetazione, alla primavera e al paradiso. Secondo la tradizione, inoltre, il profeta Muhammad avrebbe mostrato una particolare predilezione per il colore verde.
Ci volle tempo, però, perché da queste affermazioni si passasse a fare di quel colore il simbolo vero dell’islam. Le bandiere califfali per lungo tempo oscillarono dal bianco al nero. E forse, come è stato supposto, ci vollero proprio lo scontro con i cristiani e l’opposizione ad altri colori, intorno al XII secolo, per fare emergere definitivamente il verde come colore religioso dell’islam: non solo bandiere, ma anche rilegature dei libri sacri, vestiti di alti dignitari e oggetti di lusso.
Nello stesso periodo, nell’Europa cristiana, la letteratura cortese contribuiva a fare del verde non solo il colore emblematico del mondo vegetale, ma anche quello della gioventù e dell’amore, mentre la cavalleria gli dava sempre più posto nei campi da torneo: i partecipanti, infatti, cominciarono a poco a poco a ostentare il verde non tanto sullo scudo e lo stendardo quanto sulla gualdrappa o sulla cotta d’arme. E i cavalieri verdi fecero la loro apparizione nella storia, come il Cavaliere Verde del poema arturiano Sir Gawain; o come il ben più reale Amedeo VI conte di Savoia, che fu chiamato appunto «Conte Verde» per la sua abitudine di partecipare ai tornei vestito di quel colore.

Fu in quel periodo che molti autori cominciarono a suggerire che il verde fosse bello anche perché rasserena, rilassa l’occhio e lo sguardo. A dire il vero erano idee già presenti in Plinio e Virgilio, e in generale nella medicina romana: il verde riposa e conforta la vista. Ma questo aspetto curativo avrebbe preso nuovo vigore nel medioevo, attraversando i secoli e diventando infine il colore della medicina e della farmacopea.
Ma per quello che riguarda più noi, fu importante in quei secoli l’associazione sempre più forte tra verde e giardino, come luogo di riposo, piacere e armonia, quello che non a caso prese il nome in francese di verger e in italiano di verziere. Lì, lo abbiamo visto, predomina il verde: quello degli alberi e delle piante, quello dell’erba e dell’acqua, ma anche quello degli indumenti indossati. Lì soprattutto predomina la primavera. È in quei secoli che il legame tra colore e stagione si fa più chiaro. Non a caso nel francese antico il risveglio della natura e il piacere che ne risulta hanno un nome, revederie.
È la revederie che la primavera infonde nei cuori, diranno i poeti come Guillaume de Lorris: il momento del risveglio della natura e il ritorno del bel tempo, il momento di quello slancio dei cuori che si lega alla fioritura (in fondo ancora oggi non offriamo fiori per dichiarare il nostro amore?). Come nella celeberrima Greensleeves, canzone del XVI secolo che celebrava le «maniche verdi» dell’incostante amata…

È anche per tutto questo che il verde sempre di più cominciò a rappresentare il colore della speranza: speranza d’amore, visto che le giovani da marito andavano appunto in verde; speranza di vita, a cominciare dalle gestanti, a cui si addiceva il verde, come nelle raffigurazioni di santa Elisabetta, madre del Battista, o come la celeberrima moglie gravida del ritratto dei Coniugi Arnolfini dipinto da Jan van Eyck attorno al 1435.
Ma proprio negli abiti il verde poneva più problemi. Nei secoli medievali, nei villaggi, questo colore si otteneva da tinture vegetali a basso costo, che però producevano toni smorti e poco resistenti: un’immersione in una vasca di tintura blu e poi una in una vasca di tintura gialla. Oppure, per la tintura più ordinaria, erbe come la felce, l’ortica o la piantaggine. Ma difficile, difficilissimo ottenere un colore davvero vivace.
Colore chimicamente instabile, fu associato anche al diavolo e alle sue creature: le streghe e i draghi, tanto per cominciare. E, a leggere i trattati di demonologia del XVI secolo, il verde la fa da padrone: veleni e filtri malefici di colore verdastro, e animali neri (gatti, capri, lupi) accompagnati da animali verdi (basilischi, serpenti, rane).
La perdita di prestigio del verde sarebbe proseguita ancora a lungo in età moderna. In primo luogo sul piano religioso, perché nei decreti sul vestiario, così come nei sermoni, il verde finì spesso per essere considerato un colore frivolo e immorale. L’unico verde degno di rispetto: quello della natura, perché opera del Signore. Anche i pittori lo trascurarono, pur dovendo ovviamente accostarvisi per rappresentare campi e boschi. Non senza rischi per la salute, però. Poussin, per esempio, utilizzava abbondantemente la malachite, oltre a verdi metallici artificiali ricavati ossidando lamelle di rame nell’acido, nella calce o nell’aceto: ottenendo un pigmento splendido ma corrosivo e altamente tossico. Anche la primavera, insomma, aveva i suoi pericoli.

Dicono alcuni autori che bisognò giungere sino alle soglie dell’Ottocento, agli albori del romanticismo, per vedere l’affermarsi del verde. Il compiacimento dei pittori di fronte alla natura aiutò di sicuro, ma ancora di più fece l’attrazione verso la natura e la campagna, che stava crescendo tra coloro che abitavano nelle grandi, scure, città industriali. Così si cominciò a esaltare i suoi rapporti con la medicina e l’igiene, e in generale con elementi benefici quali l’acqua e le piante. Lo sport, le vacanze e l’aria aperta fecero il resto, trasformando a poco a poco la vita degli europei in una frenetica ricerca del verde e della vegetazione.
E oggi tutto questo si è spinto ancora oltre, diventando appello, slogan, programma politico per i tanti che nel verde vedono ormai la sola salvezza. E, così, ecco gli spazi verdi, l’energia verde, la rivoluzione verde. In questi anni di crescente, giusta, paura per un ambiente che abbiamo contribuito a devastare, «verde» è diventato una parola d’ordine.

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