29 ottobre 2010
“Il grande mago delle composizioni mute”, come lo chiamava con ammirazione l’enciclopedista Denis Diderot, è a Ferrara. Cinquanta suoi capolavori, provenienti dai maggiori musei di tutto il mondo, saranno esposti a Palazzo Diamanti fino al 30 gennaio. Si tratta di un’occasione davvero imperdibile per fare la conoscenza di Jean Simeon Chardin, grande maestro del Settecento francese, amatissimo in patria e nel nord Europa, poco popolare in Italia. Si tratta, dicevamo, di un’occasione imperdibile per più motivi: questa è la prima mostra italiana su Chardin, i prestiti internazionali sono davvero numerosi e notevoli, cosa sempre più rara in Italia, e il curatore della mostra è Pierre Rosenberg, ex direttore del Louvre, studioso d’arte e maggiore esperto di Chardin.
Chardin nasce a Parigi nel 1699, figlio di un artigiano, compie la sua formazione al di fuori dei percorsi canonici del periodo, quindi niente Accademia Reale, niente Viaggio in Italia per conoscere i grandi maestri della pittura classica. La sua vita, morirà nel 1779, attraversa quasi tutto il Secolo dei Lumi, ma il mondo sfarzoso e rumoroso del Settecento francese non entra nell’universo di Chardin che è un universo casto, misurato, dove il silenzioso dominio sulle forme e un utilizzo sapientissimo e emotivo del colore ci consegnano una pittura meditativa, apparentemente semplice e molto toccante. Nella sua tranquilla, anche se non facile esistenza, vissuta tra il VI° arrondissement e il Louvre, Chardin dipinge solo nature morte, scene di genere riferite alla vita quoitidiana della borghesia parigina e solo in vecchiaia, quando i leganti usati per i colori a olio gli danneggeranno la vista, si dedica al ritratto a pastello.
Intorno al 1720, quando inizia a dipingere i soggetti più in voga sono quelli storici e mitologici, e i quadri sono pagati a seconda del soggetto: più in basso le nature morte, poi la pittura di genere, i ritratti e infine i quadri di soggetto storico e mitologico. Era considerato più difficile dipingere ciò che non si può osservare. Ma il nostro Chardin non può dipingere ciò che non ha sotto gli occhi, non fa disegni preparatori, allestisce composizioni nel suo atelier e dipinge nature morte con oggetti di uso domestico disposti su tavoli di legno che si stagliano su fondali neutri, ne riproduce le forme, la varietà dei materiali, ne studia i colori cangianti e i riflessi di luce. Nonostante il suo singolare percorso formativo si impone presto sulla competitiva scena parigina, è ammmesso all’Academie Royale come pittore di animali e frutti, grazie all’esposizione di due dipinti dai colori “superbi” e dalla straordinaria resa della luce che “crea degli effetti magici” e che parte della commissione scambia per dipinti fiamminghi del secolo precedente. Da quel momento Chardin è incaricato dell’allestimento delle mostre al Salon del Louvre, dove ogni due anni espongonoo tutti i pittori francesi.
Nel decennio successivo, negli anni Trenta del secolo, Chardin decide di salire nella gerarchia dei generi e indirizza la propria ricerca alla figura umana, ritratta in ambienti domestici mentre svolge semplici mansioni quotidiane. Scordate l’erotismo di voluttuose diane e minerve, il mondo degli umani di Chardin è un mondo grave, tranquillo, operoso. Non c’é aneddotica nei suoi dipinti, non c’è movimento, non c’è denuncia sociale, ogni dettaglio ornamentale è bandito, la pittura, di qualità sopraffina, diviene poesia del quotidiano, un mezzo per esaltare, con sensibilità, i gesti delle persone comuni che Chardin trasforma in grandi protagonisti della sua epoca. Le tele di questo periodo ci raccontano anche la delicatezza con cui l’artista guarda ai soggetti che rappresenta. Uno dei temi prediletti da Chardin è il gioco dei bambini della borghesia parigina, come avviene in Bolle di sapone o in Bambina che gioca al volano.
Alla fine degli anni Trenta, Chardin torna a dedicarsi alla natura morta, approfondendo ulteriormente la variazione degli effetti di luce sugli oggetti e sulle figure. Osservando il piccolo quadro di Detroit che raffigura 2 uova e un rame, oggetti semplici e rotondi, posati su un piano di pietra viene da chiedersi quante volte Morandi o Braque l’avranno osservato. Sembra quasi un quadro cubista, astratto con una simmetria perfetta rotta solo dal porro in primo piano. Così come di fronte al “Mazzo di Fiori”, dove il tocco si fa ancor più minuzioso e le forme sono animate da pennellate vibranti che quasi scompongono la materia, si può immaginare un Cezanne incantato.
Nel mondo di Chardin si entra un po’ alla volta, ma si arriva a toccare una forma di poesia pura, e di questo abbiamo parlato con Pierre Rosenberg.
Intervista a Pierre Rosenberg