2 maggio 2013
Per ricordare l’attrice Giulietta Masina con testimonianze e immagini della sua vita prima e dopo il matrimonio con Federico Fellini, la città di San Giorgio di Piano le ha di recente dedicato un libro. Qui, nel cuore della pianura bolognese, la celebre interprete della “Strada”, delle “Notti di Cabiria” e di tanti altri film, era nata nel 1921.
L’intervista di Enzo Biagi da cui è tratto questo testo fu trasmessa il 15 maggio 1992 su RAI Uno.
Signora Masina, […] lei ha avuto un’infanzia in provincia, nella provincia emiliana…
Veramente ho avuto un’infanzia metà e metà: a quattro anni sono venuta a Roma e tutti i miei studi li ho fatti qui. Ero ospite di una zia, moglie di un fratello di mia mamma, che era professore all’Università. Però nel periodo estivo delle vacanze, che allora erano molto più lunghe e duravano quattro mesi, andavo con tutti i miei – dico tutti i miei perché eravamo quattro fratelli – per due o tre mesi in montagna; poi nel periodo della vendemmia, cioè settembre/ottobre, ritornavamo nel paesino dove tutti siamo nati, cioè San Giorgio di Piano. Un posto delizioso, di cui ho sempre dentro un ricordo straordinario. Io l’ho sempre visto come un paese dei balocchi: poteva essere disegnato da Walt Disney. Pur essendoci vissuta per poco tempo, ho ancora impressioni vivissime di quel luogo, di profumi, di rumori, di cose, di gente, di colori.
Quali sono le persone che hanno più inciso nella sua vita, oltre a Federico Fellini, naturalmente?
Innanzitutto, ho avuto la fortuna di avere una famiglia eccezionale, eccezionale perché era serena. Mia mamma lavorava: era maestra. Mio papà era violinista, fino ai trent’anni. Poi ha smesso: la famiglia della mamma, di San Donà di Piave, non dava il permesso a papà di sposarla, perché era uno zingaro, in un certo senso. Questa famiglia di insegnanti e sacerdoti, piena di tradizioni, lo qualificava così. Allora papà lasciò la sua professione e diventò cassiere capo alla Montecatini. La mia lontananza da mamma e papà, dai miei fratellini, dalla mia casa – io stavo tutto l’inverno a Roma – me li ha fatti idealizzare. Almeno mi dicono così, può anche darsi che io me li sia un po’ inventati. Però li amo moltissimo ancora.
[…]
Se non sbaglio, [lei e Federico Fellini] vi siete sposati durante la guerra. Come vivevate?
Stavamo in casa di mia zia, dove ho studiato e sono sempre vissuta da quando avevo quattro anni e mezzo.
E Federico, cosa faceva?
Federico faceva un sacco di cose. Ha cominciato come disegnatore alla Nerbini di Firenze, quando era a Rimini. Poi disegnava e scriveva vignette. L’ho conosciuto quando recitavo alla radio: io studiavo all’università, facevo il teatro dell’Ateneo, ero prima attrice giovane alla radio e inoltre davo ripetizioni. Non mi sono mai vergognata a dirlo: il denaro mi è sempre piaciuto. Se uno mi chiede se mi piacciono i soldi, rispondo: “Moltissimo, perché se non li ho, non posso regalarli!”. Ho sempre avuto questa gioia di guadagnare, magari per offrire un gelato a tutte le mie compagne di scuola. Pure Federico ha sempre guadagnato molti soldi… ancora oggi non ha il senso del denaro. Io, invece, da brava zdoura, ho dovuto impararlo. Ad ogni modo, oltre a scrivere scenette per Aldo Fabrizi e per il varietà, Federico scriveva commedie in un atto per la radio, di cui io ero l’interprete. È così che l’ho conosciuto. Faceva anche cinema; infatti ha collaborato a film allora importantissimi: Quarta pagina, Avanti c’è posto, L’ultima carrozzella, Campo dei fiori…
Tra voi c’è anche il legame magico delle origini: il mare, gli spettacoli dei burattini, la campagna, il cambiamento delle stagioni…
No, il mare no. Il mare è di Federico. Poi il suo carattere, da autentico romagnolo, e in più Capricorno, è molto diverso dal mio, bolognese con una forte componente veneta. Ci unisce l’amore per lo spettacolo e la scelta di vita, che abbiamo fatto, non solo per lo spettacolo in sé, ma per la vita che fa la persona di spettacolo.
I burattini, senz’altro: uno dei ricordi più belli che ho del mio paese, quando ancora si sentivano le cicale e l’odore dei maceri dove era messa la canapa a macerare… In treno, arrivando nel mio paesino, tutti chiudevano i finestrini; io invece li aprivo, perché per me non era una puzza, ma l’odore di casa… Mi ricordo che nei grandi cortili delle case di San Zôrz ognuno portava la seggiola, oppure pagava una lira, mi pare, per avere posto su una panca. E arrivava il famoso teatro dei burattini su una specie di carro tirato dai buoi. In questi grandi cortili si davano le opere: l’Otello, I Pagliacci, Cavalleria Rusticana, La forza del destino… per la musica, sotto la baracchetta dei burattini, c’era un grammofono a manovella, dove si mettevano i dischi.
[…]
Da Gelsomina a Cabiria, da Giulietta a Ginger, c’è qualcosa che accomuna queste figure? Il candore e la meraviglia del mondo le assomigliano?
Federico dice di sì. A me sembrerebbe presuntuoso dirlo. Mi sono rimasti dentro, come un lato infantile, che mi porta, forse ora un po’ meno, all’emotività e alla mutevolezza del carattere. Ancora oggi basta pochissimo a rendermi lieta, serena. Come basta qualcosa che mi dia fastidio a rendermi malinconica, triste. Mio papà diceva che, anche da bambina, avevo il carattere come i cieli di una città di mare: il vento, le nuvole, la pioggia, il sole… ecco, sono molto mutevole. E i miei personaggi, tranne forse Giulietta degli spiriti, hanno in sé questa forma di candore di fronte alla vita, di entusiasmo: credo che per questo Federico li abbia pensati. Io sono estroversa, voglio bene agli altri e quando vedo che vogliono bene a me, ciò mi dà una forza infinita, proprio una carica vitale.
[…]
Il suo incontro con Fellini è segnato anche da una figuretta, che ricordo benissimo. Lui la inventò per lei e la chiamò Pallina: chi era?
Palllina era una sposina di sedici anni che viveva le sue avventure alla radio insieme a Cico. La trasmissione aveva un grandissimo successo e un produttore voleva farne un film. Perciò Federico desiderava conoscere di persona e vedere l’immagine di questa giovanissima protagonista… la radio può presentare anche delle grosse sorprese! Mi telefonò, chiese delle fotografie, le feci, la zia mandò la cameriera a portarle e piacquero. Mi chiese un appuntamento: per me fu coup de foudre. Mi sembrava di aver incontrato Byron, Shelley, Lawrence Olivier. Lo confesso, sentii immediatamente una ricchezza straordinaria, ma non avrei mai immaginato…
[…]
Nella vita coniugale uno dà e uno riceve. Che scambio c’è stato tra voi?
Ci sono stati quarantotto anni di scambi. Magari anche di qualche gelosia mia, di qualche incomprensione, di qualche lite. Io poi divento una furia, una volta ogni vent’anni. Tutti mi credono così tenera, così dolce, ma so anche avere momenti…
C’è stata una vita, devo dirlo, una vita sincera, autentica, vera, senza ipocrisie, con il coraggio di rimanere e di essere noi stessi, sempre.
[…]
Chi sono le donne che ammira di più?
Diciamone una che tutti conoscono. Ammiro moltissimo le creature così dotate come Teresa di Calcutta. Le dirò che uno dei sogni, che ormai rimane chiuso nel mio cassetto di attrice, è Francesca Cabrini, un personaggio che ho rincorso per quindici-vent’anni: a parte la santità, è stata una grande donna ed è strano che gli italiani la conoscano poco. Un personaggio che, ancora oggi, nella mia presunzione, sono convinta che sarebbe piaciuto moltissimo. Ecco, il commenda Rizzoli me l’avrebbe fatto fare questo film, ma purtroppo è scomparso. Quando gli parlavo di Francesca Cabrini, con tutto l’entusiasmo, l’amore, la cotta che io avevo per questa donna straordinaria, lui sentiva che c’era qualcosa, gli ricordava qualcosa della sua vita…
Poi, di donne, ammiro anche le casalinghe. Ne ho conosciute tante attraverso la corrispondenza che ho avuto con “La Stampa” di Torino ed è stata una delle esperienze più importanti della mia vita. Donne che mi scrivevano, e che si erano indebitate per poter arricchire il modesto stipendio del marito: la figlia voleva fare la dieta a base di bistecche e non c’era la possibilità; il ragazzino aveva bisogno del motorino e, se il padre non glielo comprava, si sentiva un fallito. Ecco, queste piccole donne, per me, sono quelle che fondano la società.
[…]
Tra tutti i personaggi del cinema, del teatro, della vita che ha incontrato, chi l’ha colpita umanamente di più?
Una persona che mi ha colpito moltissimo per intelligenza, fascino, sorriso è Simenon. Ancora oggi è uno scrittore, un autore che leggo, con infinito piacere, per questo suo saper scrivere, questo studio straordinario e discreto della creatura umana. Ho avuto modo di conoscerlo in una maniera molto comica. Ero a Cannes, per Le notti di Cabiria e mi avevano dato il premio per la migliore attrice. Allora mi dissero che un giornalista da Parigi mi doveva fare un’intervista. Così, con cuffia, cominciammo. Questo signore iniziò a farmi delle domande e, a un certo punto, mi chiese: “Qual è lo scrittore che lei ammira di più?”. Rispondo: “Sto leggendo Simenon, per la terza volta”. Dall’altra parte sentii una gran risata e reagii, dicendo inviperita: “Come si permette di ridere al nome di Georges Simenon?”. Alla fine mi disse: “Signora, la ringrazio molto. Georges Simenon sono io”. All’epoca aveva una collaborazione con un giornale, mi sembra “Le Figaro”. In seguito l’ho conosciuto di persona: io e Federico anche ultimamente siamo andati a trovarlo.
Delle favole e delle storie di bambini, lette, ascoltate, viste o anche vere, ce n’è una che l’ha coinvolta particolarmente?
Le favole mi piacciono tutte. E confesso che le leggo ancora. Mi piacciono perché mi rasserenano. Forse le leggo con quel lato mio infantile, che ho nella vita. Le leggo volentieri. Da bambina, la favola che amavo di più era Cenerentola: in fondo, è stata la mia storia.
[…]
C’è chi dice che il passato non conta perché è stato, il futuro perché è incerto. Signora, come vive il presente?
Mah! Intensamente. Tant’è vero che quando mi chiedono se mi annoio rispondo che la giornata mi sembra sempre troppo corta. Poi non capisco: il passato è stato, ma noi siamo il passato. Io sono così perché c’è la Giulietta di due anni, di tre anni, di trenta, quaranta, cinquanta, sessanta, posso dire settanta. Non è vero che è passato: è il passato che si è compresso dentro di noi e siamo proprio quello che il passato ci ha fatto diventare.
[…]