14 ottobre 2008
Cari ascoltatori, il protagonista di questa nostra puntata non può essere che lui: il divino Correggio, il genio emiliano della pittura. Dal 20 settembre è aperta, e lo rimarrà fino al 25 gennaio, la mostra che la città di Parma gli ha dedicato e che sta riscuotendo una grandissima partecipazione di pubblico. Nelle sale della Galleria Nazionale e all’interno del Teatro Farnese sono state messe insieme le opere più significative del Correggio provenienti dai musei di tutto il mondo.
Si possono inoltre ammirare – tutti concentrati in un raggio di poche centinaia di metri intorno alla mostra – i tre capolavori assoluti dell’artista: i sontuosi cicli affrescati nella Cupola della Cattedrale, quelli nelle due Cupole del Monastero di San Giovanni Evangelista e il magnifico insieme rappresentato dalla Camera della Badessa in San Paolo. Correggio, com’è noto, rappresenta insieme a Raffaello, Michelangelo, Leonardo e Tiziano, il vertice del Rinascimento nell’immaginario collettivo italiano e internazionale. Con la differenza, tuttavia, che Correggio acquistò fama senza aver mai lavorato in nessuna delle grandi capitali dell’arte rinascimentale (Roma, Firenze, Venezia) ma solo nello stretto triangolo tra Correggio, sua città natale, Parma e Mantova. “Era nell’arte molto malinconico”, scrive di lui il Vasari, che ne parla come di un artista timido ma ingegnoso, che “se fosse uscito di Lombardia e venuto a Roma, avrebbe fatto miracoli”, superando “molti che nel suo tempo furono tenuti grandi”.
L’anedottica su Correggio ci aiuta a capire il clima in cui operò. Quando i canonici del Duomo di Parma, che al pittore avevano commissionato gli affreschi della cupola, videro il lavoro finito, di fronte a quell’incredibile intreccio di corpi e di membra sussultanti di vita, dissero: “sembra un guazzetto di rane”. Invece il grande Tiziano, quando vide la volta affrescata con i volteggi aerei dei personaggi celesti persi in sublime chiacchiericcio, esclamò: “capovolgete la cupola e riempitela d’oro, questo è il suo prezzo”.
Antonio Allegri – questo il vero nome del pittore chiamato con il nome del luogo di nascita – è stato uno straordinario anticipatore delle intuizioni che avrebbero poi cambiato l’arte europea. La sua sensibilità per la luce che illumina i corpi e i paesaggi, va già oltre il suo tempo. Il suo classicismo armoniosamente scomposto si arricchisce di aperture che preludono al barocco, e il sacro che trapela dalle sue pitture è più un colpo di teatro che il bisogno di un intimo dialogo col sovrannaturale. A ben guardare, la manifestazione del divino, che ha lasciato interdetti i canonici del Duomo, in Correggio sembra più vicina a una festosa estasi erotica, che anticipa di 150 anni gli amplessi trasfigurati di Santa Teresa del Bernini. Le figure sacre del Correggio non si accalcano in sobrie processioni o statici ritratti come ancora voleva certa mediocre produzione cinquecentesca, ma sono mollemente ondeggianti, seducenti, hanno la pelle di pesca, e indicano una religiosità dolcemente terrena, che annulla il distacco tra l’uomo e dio. Infatti agli angeli di Correggio basta togliersi le ali, per diventare i fauni e i Ganimede delle favole classiche, dell’ebbrezza di vita. Queste creature di carne spirituale ci trasportano, appunto, verso la dimensione umana – troppo umana, direbbe Nietzsche – del divino, e verso la sacralità nascosta nelle gioie e nei tormenti della carne.
Concludiamo questo nostro ritratto dell’artista con una considerazione del critico Flavio Caroli, che allargando l’orizzonte all’allievo di Correggio, il mercuriale Parmigianino, anche lui “divino fanciullo”, ci ha detto in un’intervista:
“Correggio e Parmigianino, rivali nella vita, sono due geni uccisi dalla loro città madre, Parma. Sono vittime di una grande città, di una grande cultura che non si rende conto dei talenti che produce. Ma come si fa a massacrare in meno di dieci anni questi due mostri di bravura: uno che dipinge nientemeno che l´aria, l´altro che si perde in favole smaltate negli acquitrini della Bassa? Correggio muore nel 1534 a 44 anni e Parmigianino nel 1540 a 37. Stiamo attenti a questi numeri: è l´età in cui muoiono i geni. Raffaello, Parmigianino, Mozart, Van Gogh, Toulouse-Lautrec si spengono a 37 anni (Géricault a 33, Domenico Fetti a 35, Caravaggio a 39), Annibale Carracci a 49 (Vermeer a 43, Correggio a 44). Dicono i teosofi che 37 è la fine della giovinezza, 49 la maturità completata. Tutti gli artisti che ho citato sono stati sopraffatti dallo sforzo immane prodotto dal loro genio. Non ce l´hanno fatta a sopravvivere alla propria arte. Sono morti sfibrati, sfiniti, delusi. E´ il caso dei due parmigiani, incompresi dal pubblico, dai loro committenti, da tutti”.