Nell’anno in cui si compiono sette secoli dalla morte del nostro Sommo Poeta, il “DanteDì” diventa appuntamento planetario: anche per questo il Ministero degli esteri, insieme agli istituti italiani di cultura all’estero, a Ravenna Teatro e al Comune di Ravenna, hanno realizzato un audiolibro che permette di ascoltare, in trentatré lingue diverse, brani tratti dalla “Divina Commedia”. Ve ne proponiamo tre, letti da Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, che da anni, con il Teatro delle Albe, aprono a tutti la lettura del poema di Dante. L’audiolibro si può ascoltare liberamente e per intero online.
Per il settecentenario la Regione Emilia-Romagna, attraverso il suo Servizio Patrimonio culturale e in collaborazione con la Società dantesca italiana, promuove il progetto espositivo “Dante e la Divina Commedia in Emilia-Romagna. Testimonianze dantesche negli archivi e nelle biblioteche”: 14 mostre che da Piacenza a Rimini, fino al 2022, espongono manoscritti, incunaboli e cinquecentine.
Inferno / Canto XXVI
Il discorso di Ulisse (versi 85-142)
Condannato tra i consiglieri fraudolenti di Malebolge a bruciare in perpetuo, Ulisse svela a Dante il mistero della propria morte: incapace di resistere all’attrazione del mare, l’eroe ormai vecchio ha convinto i compagni, con un magnifico discorso, a oltrepassare lo stretto di Gibilterra per seguire virtù e conoscenza. I limiti del mondo sono un divieto: nell’oceano Ulisse e i compagni troveranno il monte del Purgatorio, ma con esso la morte per mano di Dio.
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: “Quando
mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.
‘O frati’, dissi, ‘che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza’.
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso”.
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Purgatorio / Canto XXVIII
L’Eden ovvero la natura umana purificata: Matelda (versi 7-69)
Il Paradiso terrestre, che Dante genialmente colloca in cima al monte del Purgatorio, è una splendida foresta che ricorda la pineta di Classe, percorsa da acque, ombreggiata da alberi e animata dal canto degli uccelli. Di là dal fiume che Dante costeggia appare Matelda, personificazione della natura primigenia nella sua perfezione, che coglie fiori e insieme canta: il poeta ne è come ammaliato, quasi in una prefigurazione del prossimo incontro con Beatrice.
Un’aura dolce, sanza mutamento
avere in sé, mi feria per la fronte
non di più colpo che soave vento;
per cui le fronde, tremolando, pronte
tutte quante piegavano a la parte
u’ la prim’ombra gitta il santo monte;
non però dal loro esser dritto sparte
tanto, che li augelletti per le cime
lasciasser d’operare ogne lor arte;
ma con piena letizia l’ore prime,
cantando, ricevieno intra le foglie,
che tenevan bordone a le sue rime,
tal qual di ramo in ramo si raccoglie
per la pineta in su ’l lito di Chiassi,
quand’Ëolo scilocco fuor discioglie.
Già m’avean trasportato i lenti passi
dentro a la selva antica tanto, ch’io
non potea rivedere ond’io mi ’ntrassi;
ed ecco più andar mi tolse un rio,
che ’nver’ sinistra con sue picciole onde
piegava l’erba che ’n sua ripa uscìo.
Tutte l’acque che son di qua più monde,
parrieno avere in sé mistura alcuna
verso di quella, che nulla nasconde,
avvegna che si mova bruna bruna
sotto l’ombra perpetüa, che mai
raggiar non lascia sole ivi né luna.
Coi piè ristetti e con li occhi passai
di là dal fiumicello, per mirare
la gran varïazion d’i freschi mai;
e là m’apparve, sì com’elli appare
subitamente cosa che disvia
per maraviglia tutto altro pensare,
una donna soletta che si gia
e cantando e scegliendo fior da fiore
ond’era pinta tutta la sua via.
“Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore
ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti
che soglion esser testimon del core,
vegnati in voglia di trarreti avanti”,
diss’io a lei, “verso questa rivera,
tanto ch’io possa intender che tu canti.
Tu mi fai rimembrar dove e qual era
Proserpina nel tempo che perdette
la madre lei, ed ella primavera”.
Come si volge, con le piante strette
a terra e intra sé, donna che balli,
e piede innanzi piede a pena mette,
volsesi in su i vermigli e in su i gialli
fioretti verso me, non altrimenti
che vergine che li occhi onesti avvalli;
e fece i prieghi miei esser contenti,
sì appressando sé, che ’l dolce suono
veniva a me co’ suoi intendimenti.
Tosto che fu là dove l’erbe sono
bagnate già da l’onde del bel fiume,
di levar li occhi suoi mi fece dono.
Non credo che splendesse tanto lume
sotto le ciglia a Venere, trafitta
dal figlio fuor di tutto suo costume.
Ella ridea da l’altra riva dritta,
trattando più color con le sue mani,
che l’alta terra sanza seme gitta.
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Paradiso / Canto I
Beatrice parla dell’universo (versi 64-114)
Dante fissa gli occhi in Beatrice e si trasforma: sono i versi del «trasumanare», in cui Dante va oltre le facoltà umane, subendo una vera e propria metamorfosi come quella di Glauco mutato in creatura marina. Il viaggiatore si è sollevato verso il cielo ma ancora non lo sa: luci e suoni gli appaiono amplificati, e non ne capisce il motivo; crede di essere sulla terra, finché la sua donna maternamente gli spiega cosa stia accadendo, e quale sia l’armonia dell’universo, dove ogni essere tende al suo fine. È naturale quindi che Dante ascenda verso Dio, come è naturale che le acque dei fiumi scendano al mare.
Beatrice tutta ne l’etterne rote
fissa con li occhi stava; e io in lei
le luci fissi, di là sù rimote.
Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
che ’l fé consorto in mar de li altri dèi.
Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
a cui esperïenza grazia serba.
S’i’ era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che ’l ciel governi,
tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti.
Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l’armonia che temperi e discerni,
parvemi tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso.
La novità del suono e ’l grande lume
di lor cagion m’accesero un disio
mai non sentito di cotanto acume.
Ond’ella, che vedea me sì com’io,
a quïetarmi l’animo commosso,
pria ch’io a dimandar, la bocca aprio
e cominciò: “Tu stesso ti fai grosso
col falso imaginar, sì che non vedi
ciò che vedresti se l’avessi scosso.
Tu non se’ in terra, sì come tu credi;
ma folgore, fuggendo il proprio sito,
non corse come tu ch’ad esso riedi“.
S’io fui del primo dubbio disvestito
per le sorrise parolette brevi,
dentro ad un nuovo più fu’ inretito
e dissi: “Già contento requïevi
di grande ammirazion; ma ora ammiro
com’io trascenda questi corpi levi”.
Ond’ella, appresso d’un pïo sospiro,
li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante
che madre fa sovra figlio deliro,
e cominciò: “Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante.
Qui veggion l’alte creature l’orma
de l’etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma.
Ne l’ordine ch’io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;
onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar de l’essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti”.
“Dalla selva oscura al Paradiso. Un percorso nella Divina Commedia di Dante Alighieri in trentatré lingue” è un progetto del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, realizzato in compartecipazione con il Comune di Ravenna e in collaborazione con il Teatro delle Albe / Ravenna Teatro. La regia è di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari. Voci: Marco Martinelli, Ermanna Montanari e Claudia Sebastiana Nobili (didascalie narrative). Musiche e regia del suono: Marco Olivieri.
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Foto
Particolare di un’illustrazione del “Maestro delle Vitae Imperatorum” per l’“Inferno” di Dante Alighieri – Manoscritto 76, Biblioteca comunale di Imola (secolo XV)
Musiche
Henri de Bailly – “Yo soy la Locura” (Jordi Savall, Montserrat Figueras)
Claver Gold & Murubutu – “Ulisse”
Ambroise Thomas – “Françoise de Rimini” (English Chamber Orchestra)
Wolfgang Amadeus Mozart – “Concerto per clarinetto e orchestra in La Maggiore – KV 622: Adagio” (Berliner Philharmoniker, Sabine Meyer)
25 Marzo 2021
| Racconti d'autore
Dalla selva oscura al Paradiso
Testo tratto dall’audiolibro omonimo (sottotitolo: “Un percorso nella Divina Commedia di Dante Alighieri in trentatré lingue”, a cura di Alberto Casadei e Claudia Sebastiana Nobili, Roma, Emons Edizioni, 2020)
Vittorio Ferorelli e Rita Giannini