Nel nuovo romanzo di Serena Corsi, Marta, un’insegnante di matematica che scrive favole per bambini, deve fare i conti con la sparizione improvvisa di sua madre Clio, uscita di casa senza più rientrare. Quando, misteriosamente, cominciano ad arrivare le lettere che l’anziana ha scritto agli uomini della sua vita, la figlia scopre una donna molto diversa da quella che pensava di conoscere. Leggiamo la prima di queste lettere, grazie alla voce di Barbara Bisiach dell’associazione “Legg’io”.
Clio
Maestro,
ti scrivo perché in un lampo sono arrivate le undici e mezza di sera, e a mezzanotte Cenerentola se ne va. Da un po’ ho rinunciato a tirare indietro le lancette – prima mi sarei accontentata delle dieci, dieci e mezza, ma più fissavo la lancetta dei secondi per convincerla a rallentare, più spedite andavano le altre due.
Al che, capirai, mi sono arresa.
Scrivere se non altro è conservare, a dispetto degli orologi. Una proposta di armistizio al Tempo, che si è trattato come un nemico per tutta la vita.
Non vorrei mai che una storia così singolare come quella che abbiamo vissuto noi due andasse perduta tra le pieghe di questo secolo nuovo e obeso, che fagocita tutto avendo perso il gusto per ogni cosa. Inoltre io stessa nelle ultime settimane ho cominciato a dimenticarmi cose importanti, ecco che se le scrivo forse le dimentico un po’ meno. E comunque qualcun altro sarà messo in condizione di ricordarle.
Inizio dunque a raccontarti da un po’ prima che ci conoscessimo, visto che mi hai incontrata che ero poco più che una bambina, e come c’ero arrivata, al momento del nostro big bang, in fondo non l’hai mai saputo.
Ho vissuto la parte peggiore della guerra ma non ne ho ricordi, visto che sono nata l’8 settembre del ’43. Un giorno storico, quello, ma a casa nostra la notizia dell’armistizio arrivò con un po’ di ritardo, forse per la fatica di salire in montagna in quell’estate torrida.
Con questa data ho inaugurato il destino delle donne della mia carne. Io, mia figlia Marta e mia nipote Sara, a tutte e tre è stato reciso il cordone ombelicale in giornate storiche per l’umanità. Io per l’armistizio del ’43; mia figlia nell’aprile del 1961, quando il primo uomo veniva lanciato nello spazio – poca roba al confronto di me che nello stesso istante partorivo, mezza dissanguata su un materasso imbottito di foglie di granoturco. E per finire Sara, già figlia della sua epoca sconfinata, è venuta al mondo nelle ore della caduta del muro di Berlino.
Non voglio annoiarti con il mio vizio di cercare corrispondenze dappertutto, ma già quella delle nostre nascite sarebbe una buona storia da raccontare, che dici?
So poco di ciò che è successo alla mia famiglia durante la guerra, perché mio padre al riguardo è stato sempre evasivo. Quel poco che posso scrivere me lo ha raccontato mia nonna Onelia, già mezza demente, balbettando cronache incongrue che io provavo a cucire tra loro con la mia immaginazione di ragazzina. Te la ricordi la vecchia Onelia, vero? Eri impressionato dalla sua bocca sdentata che succhiava senza posa il boccale della pipa.
Onelia aveva partorito nove maschi e sosteneva di non aver avuto una sola mestruazione in vita sua. Io le credo, con tutte quelle gravidanze a mitraglia; e le miserie, e le guerre. Quando cominciò a me, il marchese, Onelia volle presenziare a tutte le manovre di igiene intima, credo per una curiosità che non avrebbe avuto la confidenza di soddisfare con la nuora, moglie del meno amato dei suoi gemelli.
Ogni volta che il ricordo di uno dei figli le veniva giù dalla testa come un chicco di grandine, la vecchia Onelia li metteva in fila uno dopo l’altro in ordine di nascita – tanto che me li ricordo ancora così, a raffica, gli zii che ho conosciuto a malapena: Novello, Walter, Vasco, i gemelli Renato ed Emilio, poi Adelmo, Salvo, Sirio e Adrasto.
Quattro le morirono piccolissimi: tre di stenti durante la prima guerra mondiale e il minore falciato dalla febbre spagnola appena dopo. Nel 1938, quando Onelia era già rimasta vedova, ma si compiaceva che la morte avesse finalmente staccato i canini dai polpacci dei suoi figli, il più buono tra i due gemelli, Renato, le affogò nell’Enza in un pomeriggio di luglio.
Durante il fascismo altri tre andarono a lavorare come mezzadri in pianura, e dopo essere tornati salvi dalla guerra si stabilirono tutti insieme dalle parti di Pieve Rossa, dove continuarono a fare i contadini. Invano chiesero alla madre di raggiungerli là nella Bassa, perché lei rimase sempre nella gelida casa della Val d’Enza con il gemello scorbutico, quello scampato ai mulinelli del fiume. Mio padre Emilio.
Lui dal canto suo si inventò mille scuse per non lasciare mai la riva dell’Enza, anche quando fu chiaro che i fratelli scesi in pianura si stavano sistemando e che quello del montanaro invece sarebbe rimasto sempre un destino gramo.
Della sua caparbia appartenenza a quelle valli diede dapprima la colpa alla vecchia madre, abituata a stare vicino ai figli morti; poi alla moglie, che parlava solo il montanaro stretto; infine sostenne che c’era bisogno di un anarchico lì, dove la rivoluzione forse non sarebbe sorta – ma sicuramente passata, prima o poi.
La verità è che, ancora più di sua madre, non poteva allontanarsi dal gemello Renato, che un pomeriggio d’estate avrebbe dovuto sdraiarsi su una roccia accanto a lui per asciugarsi l’acqua dolce dopo una nuotata, e invece da allora se ne stava sdraiato nel cimitero di Selvapiana, bagnato da chissà quali fiumi.
Mia madre l’aveva capito. Lei, che lo contraddiceva continuamente, non lo stuzzicò mai sulle vere ragioni della loro permanenza in montagna.
Mio padre la guerra non l’aveva fatta. Non era stato mandato al fronte perché al momento del reclutamento era rimasto zoppo per una caduta dal fienile. All’epoca era già sposato con mia madre da qualche tempo, ma io ancora non mi decidevo a nascere. Mia madre e nonna Onelia lo sentirono cadere con un tonfo che fece vibrare tutte le pareti di casa. Mia madre raccontò poi che la vecchia, alzatasi a sedere di scatto dalla sedia a dondolo gridò, Mi è morto Renato un’altra volta, poi andò a sdraiarsi nella stanza che più tardi avrebbe diviso con me e rimase per giorni prigioniera di quell’idea ostinata, gli occhi fissi al soffitto. Anche dopo che Emilio le fu riportato tutto intero, perché lei potesse vederlo in carne e ossa, ancorché fasciato e zoppicante, ci mise un pezzo a rispedire giù il boccone amaro che dallo stomaco le era risalito in gola. Fu il primo sintomo di quella progressiva demenza di cui si dovette occupare mia madre, nuora e domestica, per qualche decennio a venire.
La vera croce di mia madre comunque non fu la suocera, ma io, sua figlia Clio. Una croce che si era costruita con cura, rimproverandomi a fior di labbra o con sguardi dolenti di non essere nata maschio; con mio padre andò meglio, perché fin da piccolissima mi trattò come se lo fossi stato.
Ma questo senso d’esser arrivata nel luogo sbagliato, di cui si doveva rimproverare non certo me, semmai la cicogna, me lo sono portata sempre appresso, è stata forse l’origine della rabbia con cui ho forgiato la mia solitudine.
Del resto si sarebbe dovuto capire fin dalla data che avevo scelto per venire al mondo, l’8 settembre. Il mio non poteva essere che un destino di sbandamento.