16 dicembre 2010
In queste “Favole Padane”, edite da Monte Università Parma, Giuseppe Tonna usa la scrittura tradizionale della favola e della ninna-nanna innestandovi aneddoti ed episodi partecipi di un’oralità antica, quasi omerica. Sono le favole, anzi le fòle, che le mamme raccontavano ai bambini e che venivano narrate nelle stalle alle piccole comunità che si raccoglievano intorno al fuoco negli inverni freddi.
Giuseppe Tonna è nato a Gramignazzo, nella bassa parmense, nel 1920. Ha studiato Lettere alla Scuola Normale Superiore di Pisa e, a seguito delle vicende della guerra, si è laureato a Bologna. Insegnante al liceo-ginnasio “Arnaldo” di Brescia, città dove visse fino alla morte nel 1979, fu studioso e traduttore di Teofilo Folengo e Salimbene De Adam, ed è noto soprattutto per le traduzioni dell’Iliade e dell’Odissea realizzate per la collana “I grandi libri” della casa editrice Garzanti.
Ha collaborato a diversi giornali e riviste, ed è autore di versi e di opere in prosa, tra cui Le bestie parlano (Guanda, 1951), Al di qua della siepe, Uomini bestie prodigi.
Favole padane, I giorni della caccia e il romanzo L’ultimo paese (Guanda, 1955) sono stati pubblicati postumi.
Favole Padane
Il Folletto
Una volta, d’estate, una donna stava seduta sull’aia a pezzare dei sacchi. Ed ecco sciogliersi per terra e correre via un bel gomitolo dal filo lungo. Non si ricordava di averlo comperato, al paese.
«Oh, guarda che bel gomitolo!»
Si alza, lo raccoglie, ritorna lenta lenta avvolgendone il ?lo. Le occorreva proprio per cucirsi una sottanella da mettersi, la domenica, per andare in chiesa. E non stette lì a pensarci su due volte: forse l°aveva comprato e se n’era scordata. Tanto è pronta in noi l’inclinazione a persuaderci e a mettere il cuore in pace, quando troviamo qualcosa che ci fa comodo!
Così, con la sottana bella, andò a messa. Aveva appena varcata la soglia (e si avviava, accomodandosi il velo in testa, a cercare l”acqua benedetta con una mano nella pila), che si sentì intorno alla vita come un allentarsi, un cedere operoso.
Si china in apprensione: ecco la veste disfarsi tutta e caderle ai piedi. Fuori dalla porta rotolava via il folletto, ridevole e saltellante, raccogliendosi in gomitolo: ché in chiesa non può entrare.
Alle volte il folletto ha preso anche la forma di gatto: ed è naturale, per quel carattere ambiguo, sinuoso, che è proprio di questa bestia domestica, la quale pur vivendo da secoli insieme all”uomo non si abbandona mai completamente, e mantiene sempre una riserva di indipendenza e di solitudine.
Questo è capitato d°autunno. Cera il fuoco acceso sotto il camino: incominciava a far freddo. E ritornando dentro casa, la donna si era seduta davanti alla ?amma cercando di accumulare più calore che poteva, per quanto lo consentiva l’ampiezza della sottana.
“Ma guarda che c’è un gatto forestiero!”
Se ne stava queto queto in un angolo del focolare , con gli occhi velati stancamente dalle palpebre.
Ed ecco all’improvviso un ridere, nel silenzio: gli occhi scintillavano in quella massa assonnata e tranquilla , come se galleggiassero nell’ombra.
“Non ho mai visto un gatto ridere.”
“E neanch’io una donna far fuglèr!“
Poi è scomparso.
E’ difficile tradurre questa espressione: far focolare, cioè formare un golfo a guisa di focolare. Una lezione dunque di compostezza alla povera donna di campagna, da parte del malizioso folletto?
Ma che entrasse nelle case è sempre stato un caso raro.
Zampa d’oca
Verso sera, dopo un breve agitarsi delle foglie dei pioppi, prese a piovere. Era una buona rugiada sul pisello nell’orto, sul granturco oltre l’aia, sulle salvie rosse dei fossi. Pioveva diffuso, un velo nell’aria: e l’odore della polvere saliva su da terra e penetrava nelle case.
Poi la pioggia cessò e fu subito notte. Nuvole basse sui tetti si rincorrevano con improvvisi biancori nella massa inquieta. C’era chi guardava di sull’uscio.
Ma anche quella sera il moroso venne dalla Bella. Lo diceva la ?nestra di cucina con gli scuri socchiusi: mandava dalle fessure un lume caldo che faceva pensare al focolare acceso, a una dolce penombra nella stanza.
Tutto il vicinato sapeva che la Bella aveva il moroso: ma nessuno, o meglio nessuna (perché erano le donne che si interessavano della cosa) lo aveva mai visto arrivare per strada. E dire che andavano sul ponte presto, quando ancora di sopra ai boschi indugiava il chiaro dove era caduto il sole e la sera veniva giù sulle facciate delle case e sulle aie così strana che sospendeva alle labbra ogni voglia di parlare. E i vetri delle Finestre avevano per un momento la profondità sonnolenta e smarrita delle acque di ?ume che s’attardano nelle lanche: e di là, nelle stanze, anche gli oggetti più consueti e familiari perdevano il loro volto…
Nessuna l’aveva mai visto: eppure erano mesi che veniva, non si sapeva da quale paese. Ed era corsa la voce tra le più giovani che arrivasse improvviso come il vento certe sere, che solo il muoversi delle foglie ultime dei pioppi dice che c’è: e avesse un mantello ampio di velluto che come una vela si apriva e gonfiava alle spalle e lo facesse andare, andare…
Ma queste sono cose che si trovano nelle favole o forse nei sogni: un uomo invece cammina sulla terra, e i segni dove passa li deve pur lasciare. La Bella poi era di campagna e non era il tipo di contentarsi di un’anima vagante.
Quando venne il mattino, una vicinante più curiosa delle altre andò sul1”aia della Bella: non avevano ancora aperto il pollaio, e tutto intorno, la siepe di acero, i cespi d°erba luccicavano grondanti di goccioline. Ma sulla polvere, chiare decise camminavano delle orme strane, orme di oca: dalla porta si dirigevano verso lo stradello per smarrirsi poi nei campi. Lieta della sua scoperta, la vicina rientrò in casa e lasciò che il giorno si facesse alto, e ricco di voci e di sole. E rideva ogni tanto fra sé, e ogni tanto guardava nell’aia della Bella se mai si fosse alzata.
«Non ti sei accorta che il tuo moroso ha i piedi di oca?››
«I piedi d’oca?›› disse la Bella turbandosi in volto.
«Non ci hai mai badato?››
La Bella faceva no con la testa, come sopra pensiero. Si era fatta smorta.
«Ma quello, cara la mia ragazza, è il diavolo.››
«Il diavolo?››
La Bella corse in casa e pianse. Si scioglieva in lei un groppo di perplessità, una riserva di tremore che aveva sempre cercato di far tacere, spiegandoselo come una titubanza naturale ad affrontare un vivere così nuovo qual è nel matrimonio. Aspettava che passasse quella giornata così fervida fuori e odorosa e con tante voci dalle case e dalle aie che la facevano ancora più segretamente piangere. E nello stesso tempo temeva che venisse la sera – quei languori del ?eno in fermento al cadere della rugiada e il sussurro dei grilli e di lontano l’invito delle rane dai cavi, un invito molle e suadente che invadeva l’anima a lasciarsi andare, a chiudere gli occhi… E le rimaneva un senso di vergogna e di amaro da questa esitazione a risolversi, ogni volta.
Così venne la sera: e la Bella con occhi disincantati vide che il suo moroso aveva proprio i piedi d’oca. Fu una sera lenta a passare, fredda e schiva. La Bella volle tenere aperta la finestra, e se parlava pareva che gridasse, tanto era inquieta.
“Adesso” pensava “bisogna che studi la maniera di dirgli di no, che trovi una scusa. Ma dove vado a pescare una scusa, che è sempre così gentile e premuroso, un vero signore?”
E un’altra sera quando il moroso venne, (in un volto bruno e arguto aveva occhi vivaci, fondi, crepitavano quasi; sì, il suo camminare era un poco dondolante e negligente. Ma chi avrebbe pensato che sotto quel mantello di velluto si nascondeva il diavolo?), la Bella non lo fece neppure sedere. Aveva vinto ogni indecisione. Lo trattenne sulla porta, e pur simulando una certa stanchezza nella voce per non irritare l’ospite potente, disse ferma: «Voglio restar figliola. Ci ho pensato su in questi giorni. Non voglio più continuare a far l’amore››.
«Chi è stato a metterti in testa questa idea?››
«È un mio pensiero. Ho deciso cosi.››
«Ma se dicevi che volevi sposarmi!»
«È proprio un mio pensiero.››
«E allora ricordati» la sua voce aveva lo squillo di una tromba «ricordati che se non sai dirmi quante sere sono che vengo da te, dovrai sposarmi!»
«Ci penserò»
E il giorno dopo la Bella corse dalla vicinante.
«Come devo fare? Sono tanti mesi, e una sera viene, una sera sta a casa.››
E lei disse: «Non preoccuparti. Sai cosa devi fare? Cavati nuda, e poi ti ungi tutta di olio e vai dentro un sacco di penne e ti avvoltoli bene, e cosi vai su una pianta dove passa lui e urli.››
La sera venne giù presto senza farsi aspettare. E quando la Bella sentì stropicciar a terra, fece un verso con la gola come fa íI civettone – un urlo lungo disumano: «Uh – Uh!››
Zampa d”oca si ferma sotto la pianta (tra i rami si agitava una forma nera e ispida) e dice:
«Sono trecento sessanta cinque sere che passa per questo stradello, e mai mi è toccato di vedere un cosi brutto uccello».
E se ne andò con il suo passo sgraziato e lento che non si curava di correggere.
La Bella torna attraverso il prato, corre in casa, serra la porta.
Il diavolo arriva.
«Adesso vengo. Aspetta un poco.››
Si lava in una bigoncia con trepidazione, entro il fumare dell’acqua calda, e in furia si veste, si pettina.
«Hai pensato quante sere sono che vengo da te?»
«Sono trecento sessanta cinque sere…»
«Qualcuno te l’ha detto! Non puoi averlo trovato da solai» E nell’ira le dà uno schiaffo bruciante e se ne andò.
La Bella si mise a piangere e a toccarsi la guancia con la mano, ma con un senso nuovo di aperto e di aria e di liberazione. Per qualche tempo le rimase un rossore in volto, come se al dívampare improvviso di una ?ammata si fosse trattenuta un attimo vicino al focolare: ma poi scomparve anche quel segno. E di mattina presto la si sentì di nuovo cantare mentre sventolava alla ?nestra le lenzuola, con una voce che andava e veniva dentro la stanza.
Il diavolo in canonica
“Andiamo a rubare?”
“E’ dove?”
“A casa del prete! Ha appena ammazzato il maiale. E i salami sono ancora in cucina.»
Detto fatto: sono sul tetto della canonica. Uno cala giù per la gola del Camino, dentro un cavagno, il socio.
“Lascia venir la soga pian piano!»
I salami stavano la impiccati alle cantinelle, con la tovaglia bianca davanti alla prima fila. C’era qualche brace viva sulla cenere del focolare.
Ed eccolo all’opera: spicca il gentile, lunge e pastoso, buono da friggere in padella, e via via gli altri, più sottili e già sodi.
Poi, con uno scrollone alla corda, avvisa il compagnone. E il cavagno, pieno colmo, su!
Toccava a lui ora. Ma o fu per la furia dell’altro che non vedeva il momento di svignarsela con tutto quel ben di Dio o per i vimini vecchi che non legavano più, ecco che il cavagno si sfonda, maledizione!
Si trovò ad arrabattarsi con mani e piedi in quella gola incrostata di fuliggine, per non filar giù come un sasso e rompersi l’osso del collo. Del rumore però dovette farne, se prete e serva si svegliarono.
Si alza la donna, si alza il reverendo. Guardano, girano: niente.
Vanno in Cucina: tutto era silenzio. Si sentiva il ronzio di una mosca in quel chiaro fuori d’ora: chissà come viva, di quei giorni.
«Avrete preso paura, signor rettore. Vuole bere un uovo?»
«Ma si!»
Prende l’uovo fresco di giornata, lo buca in cima con la punta del coltello da un lato e dall’altro, e se lo porta alla bocca. Ma nel levar gli occhi al soffitto: «Gesù››, grida, «mancano i salami!»
La donna prese a lagnarsi forte. Guardano insieme, costernati.
«Signor rettore! Che brutta bestia c”è sotto il secchiaio!»
Due occhi spiritati, un ingombro nero, ansimante: pareva un gattone, animale, come si sa, caro al diavolo.
Il prete corre a prendere di là l’aspersorio.
E rlsaputo che il demonio per sua natura è uno sboccato, e ci vuole una santa pazienza.
Con le mollette del focolare in mano anche la serva pareva volesse guidare passo passo, verso l’uscita, la ritirata del diavolo nero.
Il prete gira la merletta e spalanca la porta: e quello via nella notte, che rideva come un matto.
«Dio sia lodatol» sospirò la donna.
Il prete si fece con un largo gesto della mano, a conferma, il segno di croce.