Cari ascoltatori, l’iphone e l’alta velocità non ci impediscono di parlare di un divertimento che sembra appartenere ad altri tempi ed è sempre più effimero, minoritario, anche se fa parte della storia di Bologna. Ci riferiamo al teatro dei burattini che, come leggiamo nel sito Bulgnais.com, rigorosamente in italiano e dialetto, è legata alla memoria di due celebri burattinai, Filippo e Angelo Cuccoli, padre e figlio. Filippo Cuccoli, nato a Bologna nel 1806, cominciò a fare il burattinaio nel 1831, dando rappresentazioni in Piazza Maggiore. Il figlio Angelo continuò la tradizione del padre dando spettacoli fino al 1903. Per 72 anni, dunque, la famiglia Cuccoli deliziò grandi e piccini di Bologna con rappresentazioni che fecero la storia del costume della città. Nacque allora il detto “finîr int al panirån ed Cúccoli”, cioè nel dimenticatoio. Il panirån era il cestone di vimini dove, dopo gli spettacoli, venivano riposti alla rinfusa i burattini.
I Cuccoli reinventarono il personaggio di Fagiolino, una maschera della commedia dell’arte già nota nel Seicento, o almeno definirono meglio il tipo del “birichén” già presente nella tradizione. Secondo alcuni, Fagiolino avrebbe ripreso vita agli albori dell’Ottocento da un precedente burattinaio, Cavallazzi, che faceva spettacoli in corte Galluzzi. Si ritiene anzi che Cavallazzi sia stato il primo a portare questi eroi di legno nelle piazze, poiché prima questi spettacolini rimanevano confinati nelle stanze di qualche aristocratico palazzo, dove ci si divertiva in modo forse pedante e accademico.
Il contatto con il popolo trasformò i burattini in una sorta di teatro popolare destinato a fare da controcanto al potere. Il primo eroe di questa piccola ma insidiosa ribalta fu probabilmente Sandrone, che nelle abili mani di Filippo Cuccoli, e con la sua voce che improvvisava battute su battute, divenne il megafono dei mugugni del popolo. In pratica, ciò che si sussurrava nelle osterie e nel chiuso delle case, venne amplificato in piazza. La censura, occhiuta e attentissima, vigilava sui burattini. Celebre divenne la risposta di Sandrone – contadino ignorante ma di buon senso – a Gioppino che, in miseria nera, chiedeva lumi su come mettere insieme un pasto per sé e per il suo somaro. “Dà vì l’ésen!”, gli consiglia Sandrone, cioè “dà via l’asino, vendi l’asino”. La battuta circolò a lungo tra il popolo e i liberali oppositori del potere, perché il potente senatore di Bologna, il marchese Davia, in dialetto era chiamato Davì, quindi: Davì l’asino.
La storia si faceva dunque anche nel “casotto” dei burattini, e l’espressione “far casotto” è rimasta come sinonimo di “confusione”. Angelo Cuccoli imparò l’arte del burattinaio nel paterno casotto, ma con la sua vocina timida non riusciva ad essere all’altezza delle trovate e delle battute salaci che il padre Filippo metteva in bocca a Sandrone. In piazza si beccò dunque fischi e invettive. Non potendo competere col ricordo del padre, riprese allora la vecchia maschera di Fagiolino riesumata dal Cavallazzi, alla quale adattò la sua voce. Fagiolino divenne così il figlio monello, povero di mezzi ma ricco d’appetito, di Sandrone. Così come si metteva nei pasticci, Fasulén era capace di uscirne con arguzia, prontezza di riflessi e coraggio. Il personaggio, con la sua berretta bianca e il neo sulla guancia, divenne tanto popolare da scalzare, alla morte di Filippo, il vecchio Sandrone. Rappresentava il bolognese povero ma con un senso di giustizia così alto che lo portava spesso a usare il bastone sulla testa dei malcapitati.
Fra i burattini, dobbiamo ricordare altri personaggi, come Sganapino , meno intelligente di Fagiolino, al quale fa spesso da spalla: anche lui poverissimo e affamato, per bastonare usa una scopa. Ci sono poi Brisabella (“brî?a bèla”, cioè brutta), la compagna di Fagiolino, Flèma, indolente e ancora meno acuto di Sganapino, e i due carabinieri Ghíttara e Spadàcc’, che poi per esigenze sceniche Cuccoli ridusse a una persona sola. Tipica maschera bolognese è il Dottor Balanzone, caricatura dell’accademico pedante che infarcisce il dialetto di motti latini e cerca di infinocchiare il popolo usando un linguaggio aulico che questi non comprende. Tipiche sono le cosiddette “balanzonate”, tirate logorroiche in cui il Dottore dice con mille parole cose banali.
Ci fermiamo qui, ma una cosa la ripetiamo: nei burattini c’è la storia di Bologna.