Le tre raccolte di versi scritti da Mango, il cantautore lucano dalla voce e dal talento musicale inconfondibili, sono state pubblicate dall’editore bolognese Pendragon a un anno dalla sua scomparsa.
Poggiarti sullo scrigno del mondo
Poggiarti sullo scrigno del mondo
dove gareggiano i momenti
a seminar futuro
e nella vittoria
prenderti le mani
e nelle mani mie spiccare il volo.
Senza virtù né conoscenza
né stupide vecchie coscienze,
ma con le labbra diventate suono
e i respiri canto di buona stagione,
seguire i solchi nuovi della terra
e alimentarli per mille nuovi raccolti,
fino ai germogli di marzo,
come un cerchio infinito
che gira e gira ancora
e ancor più dolce
il suo cullarti dentro di me.
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Richiamo foresto d’invito carnale
Richiamo foresto
d’invito carnale,
fiamma radente dalle mie mani.
Volo di passero
sul seno rovente,
e saturo di luce accecante.
Gambe di ginestra
intrecciate ai miei rami,
non più, ruvidi,
ma candide lenzuola di Fiandra
e foreste di betulle per te;
per te che sei ancestrale
come un antico ricordo
e futuro del mio futuro.
Sandalo veloce del mio piede incerto.
Mio Tibet ritrovato.
Rivolo d’acqua lieta, al risveglio,
aroma di caffè e di panna.
Allattami… come il più piccolo dei tuoi figli
e soffia sulle mie foglie,
chitarre del tuo madrigale d’agosto.
Concimami nella saggezza
e offendimi nella bestemmia,
affinché io possa essere tuo
per sempre.
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Il digiuno mio di te
Il digiuno mio di te
è stato il tuo tempo perso.
Delle mie mani tra i capelli
voglio fartene un ricordo
facile all’usura.
Non voglio più
la polvere delle tue scarpe
né rumori
sopra i tuoi silenzi.
Non voglio
solamente respirar di te il respiro
né
praticare l’ostia del tuo altare.
Ma ateo,
d’un riverbero lontano,
consumerò il mio pasto,
solo,
come belva ormai sazia,
non più affamata dal peccato.
Imbiancherò le mani e il corpo,
più consapevole del mio fare
che del mio dire
e non ci sarà di mezzo il cuore
ma volerò volandomi più in alto dell’altura,
più in cielo del cielo,
più luccichio del luccichio lontano,
la punta
di un puntino
appuntitissimo
fino a non toccar più il foglio su cui scrivo,
fino a sparire,
fino a non pensarti più.
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Fioriscine gioia!
Fioriscine gioia!
Soffia su quella nuvola;
spostala di tre quarti,
affinché l’ultimo sia limpido
come sorbetto al miele di castagno.
Non trascurar di scivolare
sulle mie tristezze solitarie;
appannale col tuo fiato,
nascondile d’ovatta.
Inzuppale di pioggia fresca,
rallegrale di un canto.
Conservale in barattolo
e spalmale sul pane del mio amore,
mangiale d’affetto.
Fioriscine gioia.
Sollevane polvere d’invidia.
Malevolo sia il cuore
sopra ogni acredine sospesa,
affinché tu possa baciare il mio infinito,
fino a sfinirlo,
fino a scucirne i lembi più nascosti e stretti.
Fino ad essere complice dell’anima mia.
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I tuoi denti son greggi di pecore
I tuoi denti son greggi di pecore.
Le stesse che io conto quando non dormo
e tu non ci sei.
È come togliere Venezia
al carnevale.
Il centro è fuori fuoco
ed i contorni spengono i confini.
Le alture fidanzano il cielo
senza mai sposar l’immenso.
Filomèla semina Gheppio
cantando paura e spavento.
Comunque t’amo.
Comunque è flogistico.
Comunque son qui,
son destino fagliante d’impasto.
Comunque i tuoi denti son greggi di pecore.
Le stesse che io conto quando non dormo
e tu non ci sei.
Fiammeo orizzonte
divampa dal lampo,
così che di festa ti vesta.
Però, a dirla giusta,
un po’ mi spiacerebbe
averti qui,
offenderei quel modo mio
d’immaginarti,
ma ancor di più
mi ammala il non averti.
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Il tuo profilo tra i gerani
L’immagine che mi è rimasta di te
è quel tuo profilo tra i gerani,
mentre, pensosa e carica di rughe,
guardi lontano.
I melograni non sanno più parlare di te,
non sanno se elogiarti o confondersi.
Sotto il fico si son distratti i vermi
ascoltando il silenzio che nasce dalle scarpe
e i giorni di dentro,
legati di spago a mille ortensie rapaci
sul santo ricordo,
anch’esso fatto di vita
vissuta con rabbia e con amore,
come stelle affogate d’amore.
Amore per quei figli,
che tanto ti hanno amato,
non come martiri in guerra
ma come case bisognose di tetti.
Amore per un uomo
che tanto ti ha dato,
ma tanto ti ha preso,
dal cuore fino alla solitudine,
quella del tuo profilo tra i gerani,
mentre pensosa e carica di rughe,
guardi lontano
fin dove il tempo non ha più tempo per te,
fin dove è più difficile soccorrere la luce
che perde nel confrontarsi col mondo
degli uomini.
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Ho bussato tre volte
Ho bussato tre volte al tuo portone,
ma il vento,
nei pensieri,
era più forte dei miei mille
“ti amo”
ricacciandoli, uno ad uno,
in fondo al cuore.
Per trenta volte, poi,
ho misurato il tempo
strappando i miei capelli
e farne corda
per arrivare a te, dai tuoi silenzi,
bussando sottovoce
a non gustar l’immenso
che hai negli occhi.
Ho scritto più di centotre canzoni
su di te,
sulla tua pelle
volo di allodole
a rabbuiare un cielo azzurro d’infinito.
Ho bussato poi, una volta,
ai tuoi ginocchi
e la paglia del tuo petto
ha preso fuoco,
senza bruciare il grano
che, diventato pane mi ha saziato
e tu
mi hai dato un bacio sulla mano,
lasciandomi di colpo senza fiato.
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Un ponte
Un ponte
per passare dalla tua coscienza di sempre
alla mia incoscienza nuova,
come d’un insieme
quasi perfetto,
quasi come se il vento fosse tempo
e il tempo fosse lento,
proprio come il mio sostare
dentro di te.
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Prima di darti un bacio
Vorrei che il tuo cuore
fosse con me, stanotte,
e in controtempo al mio
suonasse
di un samba sconosciuto.
Mettersi poi sottovento
ad ascoltare ogni tuo movimento
incerto
e vincerti
e guidare su di me,
per poi contare fino a dieci
prima di darti un bacio
che duri fino a cento.
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Non sono cieli
Non sono cieli quelli che voli
ma transumanze di secoli.