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26 Marzo 2015 | Racconti d'autore

Formaggi di fossa, serpenti di mare e salame da sugo

Testo di Corrado Barberis tratto dal libro “Mangitalia. La storia d’Italia servita in tavola” (Roma, Donzelli, 2010).

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

Il sociologo Corrado Barberis ha dedicato la vita allo studio dell’Italia rurale. Ecco cosa racconta di tre specialità che provengono dalle campagne terracquee del Ferrarese e dalle colline riminesi.

Ferrara: metamorfosi della salama
È quasi un gioco di società. Chiedendo in giro quale cibo evochi Ferrara, per istintiva associazione di idee la risposta è praticamente obbligata: salama da sugo.
Già, ma cos’è la salama da sugo? Anzi, la salamina, come viene affettuosamente chiamata da quelle parti? È un impasto di carni suine prevalentemente ricavate dalla coppa del collo e dalla pancetta, con aggiunta di lardo di gola, nonché di fegato e lingua, vino rosso, sale e spezie. Il tutto insaccato in vescica di maiale preventivamente tenuta a bagno con acqua e aceto. A cottura avvenuta il sapore sarà decisamente forte, quasi amarognolo, da stemperare su un bel purè di patate.
Prima di essere un prodotto, la salama è una disputa ideologica, derivante dalla sua realtà in evoluzione.
Riccardo Bacchelli, ne Il mulino del Po, imperniando su di essa la seduzione dell’inesperto Princivalle, affamato di cibo ancor più che di sesso, da parte della Sniza, patetica figura di ormai sfiorita meretrice rurale, indica in cinque anni la giusta misura dell’invecchiamento, mentre un contemporaneo degli eroi bacchelliani, l’Artusi, se la sbrigava con un’ora e mezzo appena di cottura.
Oggi la stagionatura ottimale si colloca non molto al di sopra dell’anno, mentre la cottura ha allungato i suoi tempi: almeno quattro ore, meglio cinque. Il fatto è che, rispetto alla versione storica, la salamina di oggi è alquanto cambiata di contenuto: il fegato, che ne costituiva la massima provvista, è sceso al di sotto del tre per cento.
Ancora, l’Artusi si stupiva di non vedere apparire un sugo molto copioso. Sugo, in questa circostanza, sta però per forza, energia: sia quella racchiusa nello splendido messaggio carneo, assuntore di tante proteine, sia quella espressa da sposi e amanti nelle loro colluttazioni. Al ristorante, poi, si faccia molta attenzione a come è servita la salama. Se l’oste ne decapiterà la cima disponendosi a trinciarla come un qualunque cotechino, non esiti il cliente a rimandarla in cucina. Significa che non è fatta secondo le regole, e che l’industria ci ha messo, di suo, più di quanto tollerato dalla tradizione. La vera salama, infatti, non è compatta, si sbriciola. Per questo si estrae con un cucchiaio dalla sommità, come zucchero da una zuccheriera, e a essere deposta sul purè è una poltiglia, non una fetta.
Povero Frizzi! La battaglia per il cotechino si è combattuta ormai tra Cremona e Modena, non tra Modena e Ferrara, come lui avrebbe voluto. E pensare che, per ottenere alla sua città una Doc ante litteram, egli aveva rinunciato a valorizzare fino in fondo l’autentica perla nera suina ferrarese: «Del fegato di porco a poca carne / misto e col ferro pesto e sminuzzato / un succoso salame usa formare / la mia Ferrara, non altrove usato». Poca carne? Anche in questo caso il tipico trionfa con l’evoluzione.

Comacchio: la notte dell’Artusi
Ferrara non è solo salama da sugo, o «salamina». È anche anguilla, è anche, gastronomicamente parlando, Comacchio.
Narra l’Artusi che in una sola notte buia e burrascosa dell’ottobre 1905 furono pescati a Comacchio millecinquecento quintali di anguille: assai più di quanti se ne producano ora durante l’intero anno. A determinare il crollo è stata la bonifica delle valli. Basta confrontare due carte geografiche – quella d’oggi e quella di solo cinquant’anni fa – per constatare l’enorme riduzione della superficie sommersa. Tutto il cosiddetto Mezzano è stato prosciugato per placare la fame di terra delle popolazioni contadine gravitanti su quello specchio d’acqua. E l’equazione è allora semplicissima: più terra, meno anguille.
Al tempo di Artusi, e ancor prima, Comacchio era un’indiscussa capitale dell’industria ittica italiana. Attorno al 1880, quando il ministero dell’Agricoltura organizzò le prime rilevazioni di Statistica industriale, la cittadina lagunare presentava ben quattro stabilimenti per la marinatura delle anguille con seicentoventuno occupati, facendosi precedere solo da Trapani, e dal suo tonno. Oggi le anguille di Comacchio continuano a essere marinate, ma non sempre sul posto. Le autorità sanitarie locali riscontrarono che il vecchio edificio della salatura, ubicato nel centro storico, non corrispondeva alle nuove norme e lo chiusero.
I capitoni furono quindi costretti a migrare verso il vicino Veneto dove continuarono a essere inscatolati beninteso – sotto l’insegna di Comacchio. O a farsi comperare dalla gente del posto che – ristoratori in testa – mantiene la pratica della marinatura, e nelle forme più tradizionali, sicché il declino dell’industria ha segnato il ritorno al più schietto artigianato. Soprattutto nei ristoranti, dove il cliente apprezza il valore aggiunto al momento di pagare il conto, l’anguilla viene ancora arrostita a metà sullo spiedo prima di essere messa nell’aceto che ne completa la cottura. È un compito ancestralmente riservato alle donne, che, se sono ostesse, si emancipano proprio nel far girare l’arnese ma, se sono casalinghe, trovano da eccepire su un’operazione così lunga. Subentra allora la griglia, con fuoco rigorosamente di legna.
L’Associazione nazionale piscicoltori, diretta da Antonio Trincanato, stima in trentunomila i quintali di anguilla annualmente prodotti in Italia in appositi allevamenti all’inizio del terzo millennio. La marinatura – principalmente riservata agli esemplari selvatici, vallivi – non oltrepasserebbe i duemilacinquecento quintali, con un’attività concentrata nelle settimane precedenti il Natale, perché poi la carne in aceto cuocerebbe troppo, si ammoscerebbe.
Per quali tramiti culturali un essere lubrico come l’anguilla sia diventato, un po’ in tutta Italia, simbolo gastronomico del Natale è un franco mistero. A meno di non accogliere l’interpretazione di alcuni antropologi secondo i quali i fedeli si servirebbero di quel serpente marino per realizzare una specie di comunione alla rovescia, un esorcismo. Infatti, mentre il contatto col Pane del Signore è del tutto immateriale – l’ostia si scioglie in bocca – la robusta immissione nel nostro corpo di quel serpente simbolo del demonio ne prepara una derisoria espulsione, dopo una masticazione che lo assoggetta comunque al nostro volere. E i ferraresi hanno una grande forza di volontà.

Rimini: il caso del formaggio da fossa
Alla fantasia gastronomica del maschio medio italiano Rimini evoca soprattutto il ricordo di pantagrueliche abbuffate, di enormi grigliate di pesce destinate a fare il paio, sul piano erotico, con le distese di fanciulle e signore abbrustolite lungo la spiaggia. È un vero peccato, perché – a parte le specialità comuni a tutta la cucina romagnola – Rimini e il suo entroterra vantano due autentiche perle: la piadina e il formaggio da fossa, due frutti di una storia crudelmente sofferta. […]
Secondo la leggenda il formaggio da fossa nasce nel 1494. È l’anno in cui i francesi invadono per la prima volta l’Italia e il re di Napoli manda contro Carlo VIII il principe ereditario, Ferrandino. Mentre Ferrandino nobilmente si crucciava di restare inoperoso, i suoi soldati si trovavano alle prese con i problemi del vettovagliamento, sottoponendo a dure taglie i sudditi di Caterina Sforza, detta la «Madonna di Forlì». Per salvare almeno i formaggi dalle razzie napoletane, i contadini si diedero a nasconderli in alcune fosse scavate entroterra, molte volte all’interno delle loro stesse cantine. Recuperando il prodotto dopo alcuni mesi, ci si accorse che esso aveva subìto un processo di rifermentazione, acquistando un gusto piccante e una fragranza particolare.
Pantaleone da Confienza, nella sua Summa Lacticiniorum utilmente ristampata dal Consorzio del Grana Padano, descrive tecnica e pregi dell’infossamento e poiché il suo testo è del 1477, ecco sollevati i soldati napoletani in Romagna da ogni responsabilità dell’invenzione, nel bene e nel male. Il formaggio da fossa esisteva già, prima dell’invasione.
Esso merita davvero, da parte dei turisti, un rastrellamento non meno accanito di quello a cui le soldataglie sottoponevano le povere popolazioni. A un patto, però. Che i cicli biologici delle fosse siano rispettati. Tradizionalmente il formaggio veniva interrato a Ferragosto e resuscitato per Santa Caterina, il 25 novembre. Dopo questa data la fossa era lasciata a riposo, in modo che i suoi batteri riprendessero lena. Oggi la fossa viene utilizzata per trecentosessantacinque giorni all’anno, ininterrottamente. I processi fermentativi sono sottoposti a un duro stress, alteratore del gusto.

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