Ritiratosi da anni sulle colline di Cesena, il poeta Stefano Simoncelli è originario di Cesenatico, dove negli anni Settanta del secolo scorso contribuì a fondare la rivista “Sul porto”, che raccolse le firme più importanti dell’epoca, tra cui quelle di Bertolucci, Giudici, Raboni e Sereni. La sua voce intensa ricorda quella dei vecchi marinai che, arrochiti da vento e salsedine, rievocano le isole, i mari, le partenze e i ritorni di una vita avventurosa. Lo ringraziamo per averci letto alcune delle sue poesie.
Tremo come se un vento
dei Balcani mi percuotesse
lungo un’oscura strettoia
o fossi un vecchio uomo
senza cappotto in mezzo
al suo orto ricoperto di neve.
Ma io non ho seminato niente
e le scorte di gioventù…
Non ho che te, vorrei dirti.
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Sul campo dove i bambini delle colonie
d’estate piantano palafitte
nuotando sull’erba
che credono il mare
due squadre, oggi che è sabato,
si sfidano a pallone. Dal mio tavolo
mi pare di sentirli: all’ala qualcuno dribbla
urla, si sbraccia trattenuto per la maglia…
e io ho voglia di bruciare le carte
essere analfabeta.
(1973)
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Sogno spesso un parco
un certo caffè
con tovaglie gialle
il loggione deserto d’un teatro
o un rifugio senza finestre
che non è una casa
ma un albergo per cani
e gatti che ho amato. Lì,
prima d’abituarmi al buio,
quegli occhi, le unghie…
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Perché soltanto nei bar delle stazioni
spettrali ristori lungo autostrade
o notturni dove aspettano l’ora
di tornare a casa o sparire
gli insonni, i loschi, gli ultimi –
perché credo sempre di riconoscermi
nel vù cumprà trascinato via dal metronotte
o nella magra slava scarmigliata che conta
e riconta nel cesto le rose invendute?
Perché soltanto in quegli sguardi
sfiniti e stralunati
in quelle facce di malanotte
e mai allo specchio, mai sui vetri di casa?
Mai sui limpidissimi vetri di casa?
[da: Stefano Simoncelli, “Giocavo all’ala”, Ancona, Pequod Edizioni, 2004]
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Questo sgomento di non averti per sempre
lo so, un giorno o l’altro mi farà crepare
se è con la morte nel cuore che sono felice.
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Che treno prenderò di soppiatto
che guardaroba da morto metterò in valigia?
Diranno sottovoce: era pazzo di lei
L’amava senza scampo.
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Con impegno e infinita pazienza
mi educo alla difficile disciplina
del cuore: all’orrendo presentimento
di vivere morendoti dentro.
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Una volta o l’altra tornerai anche tu
quando nell’opposto emisfero sarà giorno
sarà estate e qui darò un calcio definitivo
alla porta che cigola, pare a volte che chiami
più spesso si lamenta specialmente all’alba
la casa in silenzio e io come ibernato
lungo una rotta che si perde per rugiade
e precipizi… ? mi raggiungerai
all’ultima fermata nella notte
inventando nuovi codici, intermittenze
e ti meraviglierai ci sia tanta distanza
tra le nostre facce che si guardano
tanta scelleratezza del tempo
tanti vuoti di memoria
se non ricorderai dove abitavo
e cosa bastava per vedermi sorridere
se non ricorderò come portavi i capelli
e la luna d’agosto com’era bassa sui canali
[…].
[da: Stefano Simoncelli, “La rissa degli angeli”, Ancona, Pequod Edizioni, 2006]
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Intanto vedo che non vieni
per cena, che non ci sei
in mezzo alla piazza
tra i piccioni e la giostra,
che ti bagnerai fino alle ossa,
ti ammalerai adesso che piove
e hai dimenticato l’ombrello
accanto alla porta,
che non chiamerai per avvisarmi
e non ci sarà più niente,
proprio più niente
da chiederti.
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Ti cerco inseguendo il vento
che porta aghi di pino e nuvole
scure di pioggia. Per le pozze
che immagino sottocasa
ho preparato gli stivali
di gomma, il caban
blu da marinaio
con i bottoni d’oro,
carte nautiche e bussola
nel caso ti perdessi un’altra volta…
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Ho una stanchezza sconosciuta,
infinita. La stessa, immagino,
che provavi anche tu
in tutto il corpo
“nei capelli
e perfino nei pensieri”
confidavi con un filo di voce.
È questo che ci unisce adesso? Questo
dolore fitto dentro le mani
che stringono l’aria?
È questo il nuovo modo d’abbracciarci?
[da: Stefano Simoncelli, “Terza copia del gelo”, Ancona, Pequod Edizioni, 2012]
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Per alcuni anni, prima di addormentarmi,
ho sperato sarebbe venuto a prendermi
come davanti al portone della scuola
quando gli consegnavo la cartella
e m’aggrappavo al suo braccio.
Sarebbe stato là, sul marciapiede,
m’illudevo, distante da tutti e fumando,
ma niente, nemmeno la brace della sigaretta
a luccicare nel buio dove lo immaginavo.
Poi in un’alba livida e piena di vento,
quando ormai non ci contavo più,
si è aperta e richiusa la porta dove dormivo
e l’ho visto: era lì, ai piedi del letto,
che mi aspettava fumando.
[da: Stefano Simoncelli, “Hotel degli introvabili”, Ancona, Pequod Edizioni, 2014]
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Questa notte sono nella casa
dove ha abitato mio padre
e mangio un panino
in piedi con i suoi occhiali da sole
come se viaggiassi in pieno agosto
su un intercity superaffollato.
Invece fa freddo, è ottobre, piove,
e tra poco guarderò un film
western alla televisione
stravaccandomi come lui sul divano
e fumando una lucky strike
dopo l’altra, a raffica,
ma per quanto mi impegni
ad imitarne abitudini e vizi
non avrò mai la fragile eleganza
trasognata con cui saliva le scale
portandosi a letto una piccola birra.
Non sarò mai l’originale e mi manca.
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Ieri notte, prima dell’alba, l’ho sognato.
Eravamo nella bottega di un barbiere
dove lui, sulla poltrona di vinile,
si faceva tagliare i capelli
mentre io, nell’angolo in ombra,
aspettavo soltanto che mi guardasse.
[da: Stefano Simoncelli, “Prove del diluvio”, Ancona, Pequod Edizioni, 2017]