Trent’anni fa, in questi giorni di settembre, ci lasciava Italo Calvino, scrittore italiano tra i più importanti del Novecento. Lo salutiamo riproponendo l’inizio di un romanzo giovanile che volle pubblicare solo in appendice alla rivista bolognese “Officina” e che – “in male e in bene”, come disse lui stesso – ebbe un significato importante nella sua evoluzione.
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Nota: “Officina” si rivolge a chi ha interesse alla letteratura come ricerca e problema, perciò accettando l’invito, pubblico qui a puntate questo mio breve romanzo, scritto dal gennaio 1950 al luglio 1951 e sempre tenuto nel cassetto. Con esso volevo finalmente esprimere in forma narrativa anche quella parte di interessi e d’esperienza che sono finora riuscito solo a far vivere in qualche pagina di carattere saggistico: cioè la città, la civiltà industriale, gli operai; e insieme quella parte della realtà e dei miei interessi (da cui invece m’è sempre stato piu facile trarre simboli narrativi) che è natura, avventura, ardua ricerca d’una felicità naturale oggi.
Miravo a dare un’immagine d’integrazione umana; invece mi venne un libro insolitamente grigio, in cui la pienezza della vita, benchè molto se ne parli, si sente poco: perciò non ho mai voluto pubblicarlo in volume. Anche l’impostazione linguistica resta lì, un esperimento per me marginale e credo senza seguito. Poi è successo che appena terminato questo libro, nei due mesi successivi, per rifarmi del castigo imposto alla fantasia, ho scritto “Il visconte dimezzato” (in cui pure ho cercato, in modo più approssimativo e arbitrario, di dire dell’uomo mutilato e alienato e della sua aspirazione all’interezza) ed è venuto un racconto più divertente, si capisce, e al confronto “I giovani del Po” è rimasto ancora più in ombra.
[…] È un tema che non faccio che prenderci delle testate, da dieci anni: ho cominciato col romanzo che ho scritto dal 47 al 49 in cui alla fine doveva saltar fuori la città e gli operai; ma tutto l’insieme risultò un grottesco neorealista piuttosto pasticciato e misi anche quello nel cassetto. Ci riuscirò, una volta o l’altra, ma siccome passeranno certo ancora degli anni, intanto se questo mio romanzetto può servire da punto di riferimento per le discussioni che facciamo sono contento che esca e dica tutto quello che ha da dire, in male e in bene.
Italo Calvino
Prima di trovare lavoro, al tempo in cui girava spaesato per le vie mattina e sera, Nino non aveva badato al fiume. Per lui, nuovo del posto, il fiume era quell’acqua che vedeva scorrere tra due sponde di muro, con ogni tanto un ponte carico di statue; un pezzo di città, insomma, come il tram, i portici. E con tutto ch’era acqua, cioè la cosa che più amava al mondo, gli faceva l’impressione che fosse lì ingabbiata, coltivata, come i praticelli e gli alberi che incontrava ogni tanto radunati tra i palazzi.
Poi, un sabato, aveva trovato per strada un certo Dario, un biondo non tanto sveglio ma un buon tipo. S’erano conosciuti cercando lavoro, ed era ancora al punto di prima, senza posto e senza un soldo; con Nino s’era messo a fare dei discorsi un po’ da disperato. Nino, in quelle discussioni, si trovava nel suo: attaccava a spiegare il perchè e il percome e continuava per mezz’ora. Poi avevano preso a discorrere di cosa fare la domenica, ora che il campionato era chiuso e al cinema si cominciava a sudare. E Dario aveva detto: – Io vado al Po. Ci vieni? – Nino aveva risposto sì e c’erano andati.
Allora, usciti appena fuori di città, incominciò a capire cos’è un fiume. Anzi, già quando aveva preso con Dario la barca alla calata, aveva visto l’acqua verde e oro per il sole che ci batteva sopra, e l’aveva riconosciuta come acqua. E il viavai che c’era per il fiume, di tipi in barca, molti già in costume, e ragazze in prendisole che strillavano, e le sei remi dei canottieri e “hop! hop!” che arrivavano con quella vogata che sfiora appena l’acqua, gli richiamava alla mente il mare all’epoca dei bagni, ma là era uno sguazzare sparpagliato, mentre qui è tutto un su e giù per la corrente.
Remavano, e il fiume girava lungo un parco di salici piangenti e ippocastani, con dei verdi nebbiosi e certe tinte color rame che pareva autunno. Passarono due ponti, (ogni volta a Nino veniva voglia di cantare per sentire l’eco), l’ospedale coi malati sui terrazzi, una piscina con la gente fitta che non ci si rigirava, e intanto s’era già fuori della città, tra basse rive di fango e di cespugli.
Era una delle prime domeniche d’estate e la gente s’affollava sulle rive: bande di giovanotti in slip come in riviera, che si davano spinte e facevano i fieri, ragazzotte rosa con certi costumini che sembravano biancheria e quando si bagnavano si vedeva tutto in trasparenza, comitive di matrone che arrivavano e dài: tutte in reggipetto, vecchietti con cappelli di giornale che s’arrotolavano pantaloni e mutande e restavano seduti con gli stinchi al sole, famigliole con la merenda che riempivano la riva di cartaccia, e sciami di bambini sempre in acqua che facevano baccano come passeri.
Ma il teatro, per Nino, non era la riva soltanto; era anche il fiume, con tutto quello che passava: le barche a palo, una cosa che al mare s’usa poco, venivano su rasentando la riva, con l’uomo in piedi che arrancava a colpi lenti, e magari sdraiata a bordo una biondina; certe barche di gente vestita, con due che remavano, uno a prua che suonava l’armonica e due ragazze a poppa che non sapevano cosa dire e canticchiavano; i soldati che noleggiavano una barca e a momenti la sfondavano con gli scarponi e poi non sapevano remare e continuavano a farla girare su se stessa.
E c’erano anche là, abbronzati come negri, quei tipi di fanatici pigri, padroni d’un canotto, che stanno sull’acqua mattina e sera fin da maggio, e vanno su e giù pagaiando tranquilli, contenti loro che hanno soldi per stare in ozio e nessun desiderio in più. Così il fiume dei ricchi passava in mezzo a quello dei poveri, senza distinzione. A un tratto si sentiva: hop! hop! e arrivava il Club Armida: signori grassi e calvi in brachette e maglia bianca e blu che ci davano dentro alla veneziana come fossero in regata. E poi un rombo, un’onda di traverso, e passava una motobarca piena di pretese, perdendo nafta per tutta la scia.
– Dì, che razza di baracche mettono a bagno, qui da voi? – disse Nino a Dario. – Chi gli insegna a tenere un motore, a questi tipi? –. Era una delle prime frasi che scambiavano.
A Nino invece piacevano i barconi che rimorchiavano i carichi di sabbia e scendevano lenti, con a bordo spalatori barbuti che in quel caldo stavano tutti vestiti, nei loro abiti cenciosi, rattoppati con tela di sacco, e col cappello in testa. Perchè sul fiume lavoravano, anche: su una riva di sabbia e salici incontrarono una draga mezza in rovina, nera, con la scala dei secchi in fila fermi da chissà quanto tempo. Nino si fermò a studiarla, e Dario diceva:
– Ci diventi scemo? Cos’hai visto?
Scesero e tirarono la barca in secco. La riva è d’un fango alto e molle in cui s’affonda fino al ginocchio, basta premere. Di fare il bagno non veniva voglia; l’acqua anche dov’è più pulita ha velo di grumi di schiuma che galleggiano. Dario spiegava che passa per tanti paesi prima d’arrivare lì e raccoglie chissà cosa. Nino pensava ai paesi sul fiume pieni di collegi, e gli sembrava che a galleggiare per la corrente fosse una saliva spessa e appiccicosa. Ma ormai quell’acqua e quelle rive gli erano venute in simpatia e ogni traccia nuova che trovava, ogni complicità tra il Po e la gente, lo metteva più in confidenza col fiume, e con la città di cui ora gli pareva di scoprire come il volto nascosto, il rovescio.
Per togliersi ogni schifo, disse a Dario: – Faccio un po’ vedere lo stile a questi giovani, – e si tuffò, e nuotò fino all’altra riva. L’acqua era fredda e d’un dolce cattivo e limaccioso; la corrente tirava senza farsi accorgere ma lo spostò di metri. Uscì, e sull’altra riva c’era una banda di ragazzi suoi compagni di lavoro sdraiati sulla sabbia, con un’aria annoiata e senza donne. C’era in mezzo quel Bodrero, che sembra sia sempre lì per fare un gran discorso.
L’avevano visto nuotare e – Neh che non va male il Torre – dicono.
– Già, che lui viene dal mare, – lo canzonano.
Nino avrebbe voluto spiegare quel che andava scoprendo: che il fiume è tutto il contrario del mare, che il senso del mare è nell’essere deserto e smisurato: per poco uno s’inoltri non distingue più la gente a riva, va e va e non vede più neanche la terra, e il mare, il mare vero comincia solo allora; il fiume senza nessuno, invece, è squallido, via per quel principio di pianura; il fiume ha un senso per quel tanto che c’è gente che gli va addosso, che si fa portare da lui, gli fa festa, gli lavora intorno, lo intorbida, lo guasta.
Ma certo erano idee confuse, e con quelli che conosceva da poco Nino non riusciva a esprimersi. – Paese che vai, mare che trovi, – si limitò a dire, indicando quel viavai là intorno.
Il Bodrero non battè ciglio, s’alzò e disse: – Desiderio d’evasione piccolo-borghese, – e camminò verso i salici.
Gli altri dietro, perchè lui era un po’ un capo. Nino non aveva capito bene cosa intendesse, ma quel modo di troncare le discussioni non gli andava. Ferma Ernesto e gli fa: – Ma, dì, con chi l’ha, quello?
Ernesto era della combriccola, ma a Nino pareva un tipo a posto. Ride e dice: – Ha che si sente piccolo-borghese lui, alle volte, – e segue gli altri.
Nino si ributta in acqua perchè è bagnato e l’aria tira al fresco.
All’altra riva c’era Dario che aspettava sulla barca.
– Non ti sembra ora di tornare? – gli fa Nino.
– Per me, – fa lui. – Credevo che ti divertissi.
Il ritorno, seguendo la corrente, è il momento più bello, per le barche: non c’è quasi bisogno di remare, basta tenersi in mezzo al fiume e, pian piano, si va. È l’ora in cui, chi è in coppia, l’uomo cede il posto alla ragazza e si sdraia sul fondo e lei s’accoccola a poppa con un remo a paletta: il cielo si fa viola sulla città, a un tratto si sente le foglie dei pioppi muovere, e l’acqua è scura. In mezzo a quel va e vieni c’è rimasto per tutto il tempo un pescatore col tremaglio, sulla barca ancorata; tira su la rete la centesima volta, e c’è una trota d’argento che salta; Nino dice: – Finalmente!