La scrittrice imolese Muriel Pavoni ha raccolto storie di donne romagnole dalle esistenze contrastate e coraggiose: partendo dalle notizie biografiche, è entrata in un dialogo diretto con queste vite, restituendocene le voci, i gesti e i colori. La prima parte del racconto è stata pubblicata nella rubrica “Protagonisti“.
Una decina di ragazzi e ragazze tornano nella scuola di campagna che hanno frequentato da piccoli, sono ingrigiti, la loro pelle è solcata da rughe profonde, servono gli occhiali per vedere da vicino, sorridono e chiacchierano, ricordano la loro maestra.
“Noi maschi d’inverno andavamo in giro coperti con i calzoni lunghi oppure coi pantaloni alla zuava, prima che arrivasse lei. Ma lei non voleva, ci obbligava ad andare a scuola con i calzoni corti. Diceva che dato che le bambine venivano tutte con le gonne corte e avevano le gambe nude, anche a noi ci toccava fare come le femmine. E allora, da quando è arrivata lei, si sono portati i calzoncini anche d’inverno”.
“Si stava due per due nei banchi, lei era un enorme donnone con i capelli bianchi, alta e di stazza notevole. Io non ricordo che sia stata mai giovane, eppure quando è venuta da noi non era vecchia. Stava sulla cattedra rialzata e si faceva il diario, il disegno, la poesia. Quando hanno iniziato a venire i giornalisti a intervistarla, ci sentivamo importanti, ma poi venivano anche gli ispettori scolastici e lì succedeva il putiferio, perché lei era una pensatrice libera”.
“La mattina seguiva quelli più grandi, si faceva diario, dettato e poesia, mentre i piccoli disegnavano. Al pomeriggio, quando quelli più grandi si mettevano dietro a fare il disegno, lei seguiva i più piccini, quelli di prima e seconda. Alla fine, dopo che aveva seguito i più piccoli, nel tardo pomeriggio, faceva storia e geografia. Ma alla mattina la cosa più importante era il diario”.
“Sì, è vero, ognuno faceva delle cose e i più grandi seguivano più volte lo sviluppo dei più piccoli. Le letture, certe volte, erano per i più piccoli, altre per i più grandi, a volte i piccoli ascoltavano, senza capire nulla”.
“Il disegno era il principio, perché lei diceva che osservare e riportare il particolare serviva a imparare”.
“Si girava per i campi a cercare il fiore particolare, il ramo più colorito, la lucertola. Gli attrezzi erano due: una scatola di plastica e il filo d’avena con il laccio in cima per catturare le salamandre e le lucertole. C’era un laghetto che serviva all’orto di un signore: lì vicino, c’erano le salamandre; noi le prendevamo con il laccio e le mettevamo dentro il plexiglas, si portavano in classe e si designavano. Poi si liberavano subito”.
“Scarafaggi, insetti, uccellini nelle gabbiette, foglie secche, farfalle, mettevamo le bestioline nei boccioni, certi animalini che si faceva fatica a vederli, un’infinità di animali di svariati tipi, nei disegni si arrivava a riprodurre il pelo del lombrico, le venature della foglia, si faceva con sei matite, si faceva la punta con la lametta e si mescolavano i [colori] primari per fare i secondari”.
“Lei non sapeva disegnare niente, diceva. Io vedo i vostri, mi piace, ma non so fare, che a scuola non mi ha allenato nessuno al disegno, aggiungeva. Che peccato, pensavo io”.
“Non diceva a nessuno che aveva sbagliato, delle volte diceva, potrebbe esserci un’altra via, ma non interveniva direttamente, voleva che fossimo noi a maturare, per conto nostro. Ci si correggeva da soli”.
“Delle volte sembrava che volesse imparare più lei da noi che viceversa. Però poi aveva delle idee chiare e le esponeva. Diceva che il disegno serviva per la formazione, per un lavoro futuro, perché saper osservare e ripetere è il principio dell’addestramento al lavoro. Meglio s’impara a osservare, prima si impara un mestiere”.
“Questa cosa era verissima. È vero che ci ha costretti a osservare la cose, era faticoso ma il vantaggio io l’ho riscontrato nel lavoro. Ho sessantaquattro anni e, ancora oggi, osservo, guardo e imparo a fare le cose, in un attimo.”
“Poi ci dava questi compiti continuativi per un anno, di raccontare tutto quello che accadeva in casa, nella stalla, nella bottega del barbiere, in chiesa: messe, matrimoni, funerali. Lo si doveva fare tutti i giorni e voleva dire scavare in quello che era successo, dire anche quello che non si poteva. Per noi, certe volte, non era successo nulla. E lei ti riportava lì, alla costrizione a trovare cose interessanti nella quotidianità, nelle stupidaggini. Bisognava sforzarsi. Un giorno, d’inverno, era freddo, non portai niente e lei mi cacciò fuori obbligandomi a trovare qualcosa. Io avevo gli zoccoli, un freddo, in un campo vidi le foglie delle rape tutte mangiate dal gelo. Erano così belle”.
“Io stavo vicino alla chiesa e allora avevo il compito di raccontare quello che succedeva in parrocchia. Ero andato a chiedere al priore la spiegazione di certi riti e lui si era arrabbiato, perché sapeva a chi doveva chiedere conto, alla terribile maestra che ci dava questi compiti insolenti, che ci leggeva i Malavoglia e ci faceva capire che certi riti sembravano un po’ pagani. Ma anche a me i riti della liturgia sembravano pagani, io avevo il compito di scrivere e il priore era l’unico che mi poteva dare spiegazioni”.
“Io, quante giornate ho passato a osservare le formiche sul davanzale”.
“E poi lei sceglieva i diari migliori, li raggruppava nei quaderni generali, divisi per argomenti. I miei diari non venivano mai scelti, perché io provenivo da una famiglia ricca, noi non eravamo mezzadri, noi avevamo le terre e i miei diari erano diversi, non parlavano di esperienze che si potevano condividere. Per esempio una volta raccontai di un’udienza privata con Pio XII, queste cose agli altri non succedevano e quel diario, che per me era un capolavoro, non venne mai inserito nel quaderno generale, per me fu un tale dispiacere”.
“Io fui premiata per il diario dal titolo Il viaggio in una tasca. Vinse un premio nazionale. Ci arrivarono i libri per la scuola, venne letto alla radio. All’inizio mi parve un’idea sciocca, raccontavo cosa c’era nella tasca di mio padre, non me l’aspettavo proprio quel premio”.
“Non mi rendevo conto di quanto fossimo anarchici in quella scuola, finché non ho imparato l’analisi logica e mi è parsa una cosa talmente strana, mettere assieme le parole in quella maniera, quando noi avevamo tutta un’altra mentalità. Quando la maestra venne ripresa per i metodi che usava e perché lei continuava la scuola anche d’estate, lei rispose: ‘Ma perché abbandonare questi ragazzi quando s’è aperta una porta?”.
Io e Marianna
Si dice che Maria Maltoni fosse stata interventista durante la Prima Guerra Mondiale. Si dice che abbia salutato con entusiasmo la riforma Gentile. Si dice che fosse una fervente cattolica prima di andare a insegnare a San Gersolè, prima di aderire al movimento partigiano clandestino, prima di entrare a far parte del Partito d’Azione.
Cosa c’è alla base di un cambiamento?
Dal mio punto di vista c’è un pensiero autonomo, la capacità di riflettere, di andare in profondità, di vedere causa ed effetto, la forza di non lasciarsi sedurre da idee astratte, saper guardare dietro ai fatti e maturare le proprie personali convinzioni.
Questo è stata, dal mio punto di vista, Maria Maltoni, una libera pensatrice che ha saputo sfruttare quel poco che il periodo storico in cui ha vissuto le ha potuto dare, trasformandolo secondo i metodi e le convinzioni maturate dall’esperienza.
Della riforma Gentile apprezza l’interesse per il canto, il disegno, le tradizioni popolari, la sostituzione del componimento a tema obbligato con il diario. Impara a sfruttare questi elementi per dar vita a un esperimento unico. Non da subito, però. È lei stessa a definirsi disorientata dopo la riforma del ’23; inizialmente aveva apprezzato i programmi della scuola postunitaria, il diktat dell’istruzione calata dall’alto, la necessità di educare laicamente i cittadini, l’omogeneità dei programmi. Eppure, nella pratica quotidiana, si rende presto conto di uno scollamento tra i programmi e la società contadina. Quest’ultima si sarebbe difficilmente adattata alla rigidità delle istituzioni.
Dopo i primi anni di insegnamento si accorge che l’alunno apprende in modo diverso da come impone la scuola.
La riforma Gentile introduce l’obbligo dello studio del disegno e lei non sa come adattarsi a questa imposizione: lei che non ci si è mai cimentata a scuola nel disegno, come può insegnarlo ai bambini?
Decide di cambiare prospettiva, di imparare lei stessa, qualcosa, da loro. Di fronte alla necessità di cambiare si accorge che usando altri metodi, partendo dal basso, da quello che sa il bambino, dalla libertà di espressione, si possono ottenere grandi risultati. Marianna usa il disegno per osservare, per far nascere domande da cui imparare e così fa con il diario. Riesce, infine, a trasformare la sua preoccupazione nel principale strumento di insegnamento.
È questo, dal mio punto di vista, essere una pensatrice libera. Tant’è che i suoi metodi, sebbene rispettino appieno i dettami della riforma, vengono osteggiati: troppa libertà, troppa anarchia nella piccola scuola di campagna di San Gersolè.
Stimo le persone che sanno superare i propri pregiudizi, che sfruttano i loro limiti, che hanno delle passioni a cui dedicarsi. Questo è, dal mio punto di vista, Marianna. Questo è ciò che ho visto negli occhi dei suoi ex allievi, che ora sono signori e signore di una certa età, che si ritengono fortunati dell’esperienza scolastica e ricordano con grande riconoscenza una vera maestra di vita.