C’era una volta l’Italia devastata dalla guerra e avvelenata dai rancori del dopoguerra, quando i conflitti anziché assopirsi erano sul punto di esplodere di nuovo, come se non fosse bastata la precedente rovina. L’Italia profonda, contadina, solidale, radicata sul solido ceppo secolare del cattolicesimo, si trovava di fronte un’altra Italia di bandiere rosse che sventolavano nelle piazze promettendo una “nuova primavera”. Dalla posticcia romanità fascista ai nuovi furori rivoluzionari, il passo era breve.
Questa Italia trovò il suo cantore in un giornalista poco meno che quarantenne, reduce dal campo di prigionia, che sarebbe poi diventato uno dei grandi scrittori italiani del Novecento. Nato a Fontanelle di Roccabianca, in provincia di Parma, esattamente cento anni fa, il 1° maggio 1908, Giovannino Guareschi dopo il referendum del 2 giugno 1946 iniziò ad appoggiare la Democrazia Cristiana, sia per la sua fede cattolica sia per il suo fervente anti comunismo. Dalla rivista “Il Candido”, si mise a satireggiare i comunisti con famosissime vignette intitolate “Obbedienza cieca, pronta e assoluta”. Chiamava i militanti comunisti, con termine divenuto famoso, “trinariciuti”, perché prendevano alla lettera le direttive che arrivavano dall’alto (la terza narice serviva a far uscire il cervello da versare all’ammasso del Partito che avrebbe “pensato” per loro). Per la celebre vignetta del compagno con tre narici, Togliatti gratificò Guareschi con l’appellativo di “tre volte idiota moltiplicato tre” durante un comizio. In quell’occasione Guareschi scrisse sul Candido: “Ambito riconoscimento”.
Sulle pagine del suo settimanale Guareschi denunciava anche gli omicidi che insanguinavano, a dispetto di tutta la retorica sulla pacificazione nazionale, vaste zone della Penisola, in particolare l’Emilia-Romagna che Guareschi soprannominò “il Messico d’Italia”. Il riferimento era al genocidio perpetrato dal 1926 al 1929 contro i cattolici messicani, i “Cristeros”.
In soli dodici mesi “Il Candido” aveva conquistato l’attenzione di migliaia di lettori, grazie alla fantasia, alla creatività e alla determinazione di Guareschi, ed ebbe un ruolo decisivo nel determinare la sconfitta del Fronte social-comunista il 18 aprile del 1948. In seguito, le critiche di Guareschi avrebbero colpito anche le forze moderate, di cui lo scrittore parmense intuì l’ambiguità: era sì l’Italia della ricostruzione, ma anche quella dell’opportunismo. Guareschi amava appassionatamente il proprio Paese, per il quale aveva sofferto in tempo di guerra, finendo internato in un lager nazista.
Guareschi percepiva il respiro profondo, epico, della terra e degli uomini, delle vicende storiche minime e grandi, dalla Guerra Fredda ai piccoli fatti di paese, che come nelle opere del reggiano Cesare Zavattini – l’altro grane poeta della Bassa emiliana – acquistavano valenza universale. Il giornalista, il polemista brillante lasciò spazio al narratore. Nacque così nel dicembre 1946 “Mondo Piccolo”, teatro e sfondo delle imprese di don Camillo e Peppone, piccolo specchio in cui si riflettevano i tormenti dell’Italia di allora, le torbide storie narrate da tempo immemorabile nei casolari, i drammi e le sofferenze della guerra e l’ancor più cruda guerra civile.
Guareschi trasfuse in don Camillo e il suo Cristo, in Peppone e nei compagni della Sezione, una filosofia del buon senso che si accompagnava a una teologia della speranza, espressione di un profondo senso religioso che non diventò mai clericalismo e che pure a tanti clericali non piaceva per niente. Infatti, alle critiche che sempre gli giungevano dai comunisti si aggiunsero le prese di distanza dei moderati: perché il “cattivo prete” don Camillo se la intendeva col “bolscevico” Peppone? Il presunto anticomunista Guareschi propugnava forse un abbraccio coi comunisti? Con chi stavano realmente il Candido e il suo direttore? Guareschi ebbe modo di chiarire il suo pensiero in un editoriale del 7 dicembre 1947: “Noi non apparteniamo a nessun ismo. Abbiamo un’idea, sì, ma non finisce in -ismo. La cosa è molto semplice: per noi esistono al mondo due idee in lotta: l’idea cristiana e l’idea anticristiana. Noi siamo per l’idea cristiana e siamo perciò con tutti coloro che la perseguono e soltanto fino a quando la perseguono. Quando, a nostro modesto avviso, qualcuno si distacca da questo principio, chiunque sia (fosse anche il nostro parroco) noi diventiamo automaticamente suoi avversari. Siamo contro ogni forma di violenza, e perciò non possiamo ammettere nessuna guerra santa. Per noi la guerra è sempre un delitto da qualunque parte venga dichiarata. La nostra strada è dritta e su di essa camminiamo tranquilli. Alla fine, magari, ci troveremo con sei lettori in tutto”.
Così era Guareschi, e così dava vita ai suoi personaggi di Mondo Piccolo, che conobbero ben più di sei lettori, a ragione di quelle storie intense, portatrici di un’umanità concreta, umorale. Lo scrittore parmense dovette subire fino alla morte l’ostracismo della critica “ufficiale”, della cultura progressista. “Un uomo di difficili costumi”, disse di se stesso alludendo alla sua intransigente moralità, che non era rigidità puritana, ma recava su di sé lo sguardo della misericordia. Una misericordia, una pietas, che dopo aver sperimentato il lager di Hitler non volle negare a nessuno e che, negli episodi di Mondo Piccolo, poteva essere manifestata dal Crocifisso oppure praticata – anche ringhiando a denti stretti – dal sindaco e dal parroco.
« Così vi ho detto, amici miei, come sono nati il mio pretone e il mio grosso sindaco della Bassa.[…]Chi li ha creati è la Bassa. Io li ho incontrati, li ho presi sottobraccio e li ho fatti camminare su e giù per l’alfabeto ».
Poeta della Bassa, dunque, fu Guareschi: “in quella fettaccia di terra che sta tra il Po e l’Appennino” ambientò il suo microcosmo trasognato, ricettacolo di tutti i vizi e le virtù, ricco di sapori e di odori.
Non esiste più una Emilia così, come quella che Guareschi ha fatto amare a migliaia di lettori in tutto il mondo. La Bassa forse si è dispersa nelle nebbie del Po e della memoria. Ci rimane la sua meravigliosa favola.
Lettura di Fulvio Redeghieri