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29 Novembre 2018 | Racconti d'autore

Il pane sotto la neve

Testo tratto dal romanzo omonimo di Vanessa Navicelli (2017)

A cura di Vittorio Ferorelli

Seguire passo passo, con affetto, la vita di una famiglia contadina, dai primi del Novecento alla primavera del ’45: è questo l’intento con cui Vanessa Navicelli ha scritto e autopubblicato il primo libro della sua “Saga della Serenella”, dal nome che in campagna viene dato al lillà, un fiore in apparenza delicato ma capace di resistere alle asprezze.

I – Il vento degli angeli

Da qualche parte sulle colline dell’Emilia, al confine con la Lombardia, dove la provincia di Piacenza abbraccia la provincia di Pavia.

È il 1897. Una domenica di maggio.
Un ragazzo di diciassette anni cammina per una stradina sterrata di collina. In mano ha dei rametti di serenella. Ogni tanto prende dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto, se lo passa sulla fronte; poi lo gira sull’altro lato, si china a terra e lo passa sulle scarpe. Guarda il sole, con gli occhi socchiusi; fa un bel respiro e riprende a camminare.

Una ragazza di quindici anni aspetta davanti alla chiesa del suo paese. Stringe un santino della Madonna tra le mani. Di fianco a lei c’è il parroco che la osserva mentre, nervosa, zoppicando un poco, va avanti e indietro da una fontanella a rinfrescarsi il viso.
“Arriva” dice il parroco, indicando il fondo della piazza antistante. La ragazza s’infila il santino della Madonna in una tasca del vestito e, per un attimo, lo tiene premuto con la mano.
Il ragazzo di diciassette anni si avvicina, si toglie il cappello e fa un leggero inchino verso il parroco. “Buongiorno, reverendo.”
Poi, a occhi bassi, aggiunge: “Buongiorno, Cesira.” E, senza dire altro, allunga alla ragazza i rametti di serenella.
“Grazie” sussurra lei.
“Siete proprio sicuri?” chiede il parroco. “Non preferite pensarci ancora un po’? La tua famiglia, Battistino, è contenta di sapere che ti fidanzi così giovane?”
“Decido io per me” risponde il ragazzo. “La mia famiglia lo sa e non ha niente da ridire.”
“E tu, Cesira, sei davvero convinta?”
La ragazza fa segno di sì con la testa. “Reverendo, sapete la mia situazione. Vivo coi miei zii, ma… sarei contenta di farmi una famiglia mia, prima possibile.”
“Allora venite. Entriamo in chiesa e ufficializziamo il fidanzamento.”

“Quando parti per la risaia?” chiede il ragazzo, fermo nella piazza davanti alla chiesa, ancora col cappello in mano.
“Domani mattina presto” risponde la ragazza, abbassando gli occhi sulla sua serenella.
Il parroco sta dritto davanti alla porta della chiesa, come un carabiniere, a controllare i due ragazzi che si salutano.
“E con la gamba… in risaia ce la fai?”
“Sono già due anni che vado. Fatico un po’, ma ce la faccio.”
“Mmmh. Va be’. Ci rivediamo a metà estate allora.”
“Ti scriverò qualche cartolina. Se ti fa piacere, Tino…”
Il ragazzo annuisce.
Per un istante restano in silenzio. Poi entrambi estraggono da una tasca una foto: sono i loro ritratti. Se li scambiano senza parlare.
Si salutano stringendosi la mano.
Gli occhi verdi di lui incrociano quelli scuri di lei.
Il ragazzo si rimette il cappello e riprende la strada verso casa.

Dopo essersi allontanato di circa un chilometro dal paese di Cesira, in aperta campagna, quando ormai è sicuro che nessuno lo veda più, Tino si ferma, si siede su un sasso e si toglie le scarpe. Le ripulisce col fazzoletto. Scuote la testa e sospira perché c’è della terra che solo col fazzoletto non vien via. Si rialza, si mette le scarpe sottobraccio e ritorna a casa scalzo.
Queste sono le prime scarpe nuove che ha da quando è nato. Gli sono toccate per pura fortuna; erano in un pacco per i poveri donato alla sua famiglia dalla parrocchia, e in casa sua era l’unico a cui andavano bene.
Scarpe di cuoio; nere con un bordo bianco.
Fino ad allora, Tino non aveva mai sentito il profumo del cuoio nuovo.
La sera, prima di coricarsi, metteva le scarpe ai piedi del letto, e tutte le notti, almeno una volta, si alzava per vedere se erano ancora lì, se nessuno le aveva toccate.
Le teneva sempre lucide con uno straccio di tela, e usava un po’ di strutto per tenerle morbide.
Le metteva solo nelle occasioni importanti; altrimenti usava quelle vecchie e bucate, oppure andava scalzo. Tutto pur di non consumarle.
Erano l’unica cosa elegante che aveva, in una vita fatta di miseria.

*****

“Ci vediamo ad agosto, per la festa del mio paese?
Io sto bene e lo stesso spero di te.”

Così diceva l’ultima cartolina di Cesira.

Tino si prepara per la domenica della festa.
Va a casa di Cesira a prendere lei e i suoi zii. Prende sottobraccio la sua fidanzata, sotto gli occhi vigili della zia, e si dirigono tutti sulla balera.
Tino si guadagna un bicchiere di vino e un panino col cotechino per tutti loro, offrendosi di dare il cambio al tizio che suona la fisarmonica – che è dovuto correre a casa perché la moglie sta partorendo –.
È bravo, Tino, con la fisarmonica.
Cesira lo guarda, mentre suona col resto dell’orchestra, e pensa che è proprio bravo.
Con la coda dell’occhio guarda anche le sue amiche; nessuno dei loro fidanzati sa fare qualcosa di simile.
Sospira fiera e fa un piccolo sorriso tra sé. – Ma proprio piccolo, perché lo sa che troppo orgoglio è peccato. –

Un coro di grilli fa da sottofondo a Cesira e Tino mentre tornano alla casa di lei, seguiti a pochi passi dagli zii.
D’improvviso, si sente solo il canto delle cicale, come se si fossero imposte a forza e avessero zittito i grilli.
Una leggera brezza si alza e rompe l’immobilità dell’aria afosa d’agosto.
“Il vento sono gli angeli che sbattono le ali” sussurra Cesira, aggiustandosi una ciocca di capelli sfuggita dal ciuffo.
“Tutte storie da perditempo che raccontava tua mamma” ride la zia, pochi passi dietro.
Gli occhi della ragazza s’inumidiscono.
Tino s’irrigidisce, stringe il braccio di Cesira e inizia a tossire. È una tosse nervosa: gli viene sempre quando si emoziona troppo, o quando si agita e non può dire quel che pensa. Gli succede fin da piccolo.

*****

Per la vigilia di Natale, Cesira gli dà appuntamento davanti alla chiesa; andranno a messa assieme.
Ma quella notte scende una gran nevicata e così Tino arriva con parecchio ritardo. Davanti alla chiesa non c’è più nessuno, e dentro è tutta piena. Cesira e i suoi zii sono seduti su una panca a metà navata. Tino li vede dal fondo della chiesa, ma non prova neanche ad avvicinarsi: sono tutti stipati, non c’è spazio per muoversi.
Vede un posticino a sedere lasciato libero, perché in un angolo quasi soffocante; ma Tino è talmente stanco che si precipita a sedersi.
È da un mese che non vede Cesira; ha avuto da lavorare. Ora ha voglia di prenderla sottobraccio e di augurarle buon Natale. Appena finirà la messa, la aspetterà sul sagrato e la riaccompagnerà a casa. Sarà contenta e lui si farà perdonare il ritardo.
Mentre ci pensa, Tino incrocia le braccia, si appoggia allo schienale della sedia e, dopo qualche minuto, la testa si inclina in avanti; gli occhi gli si fanno pesanti.
Ha smesso di lavorare poche ore prima, e poi ha camminato per chilometri nella neve per arrivare lì.
È stanco. Si è addormentato, con la nenia del parroco in sottofondo.
Finita la messa, Cesira esce coi suoi zii. Si guarda attorno, ma non lo vede, nascosto com’è nell’angolo più buio e stretto della chiesa. Lo aspetta anche sul sagrato, per un po’; ma poi la zia insiste per tornare a casa, prima che la neve blocchi le strade.
“Se n’è rimasto al suo paese, al caldo, te lo dico io. Altro che me l’ha promesso. Figurarsi! Quello lì è uno che fa quel che gli fa comodo. Se non lo capisci sei più stupida di quel che pensavo.”
E detto questo, la zia prende sottobraccio lo zio e ordina a Cesira di seguirli a casa.

II – Pazienza con rabbia

Marzo 1899.
Cesira sta tornando dalla chiesa con altre ragazze. Sulla strada di casa, vede Tino. La aspetta con le mani in tasca, la schiena e un piede appoggiati al muro.
Le altre ragazze sorridono e accelerano il passo, per lasciarla indietro, sola con lui.
Gli occhi verdi di lui incontrano gli occhi scuri di lei.
“Se continuiamo così non riusciremo mai a vederci e io mi consumerò i piedi. È arrivato il momento di sposarci, sei d’accordo?”
Cesira fa segno di sì.
E così, a maggio, si sposano.
Tino con le sue scarpe di cuoio, Cesira con un bouquet di serenella. Nessun altro orpello.
Lui ha diciannove anni, lei diciassette.

*****

Tino fa il mezzadro. Dopo aver lavorato per anni a giornata, come bracciante, prima di sposarsi è riuscito ad avere un contratto che gli garantisce un terzo del raccolto e una casa in cui vivere.
La casa è composta da tre stanze. Fuori c’è lo spazio per un orto e davanti c’è già un albero di serenella. A Cesira, che arriva lì fresca sposa, subito dopo la cerimonia in chiesa, sembra di buon auspicio trovare già una pianta fiorita.
“Tieni a mente che sei venuta ad abitare in un posto dove non nevica mai dritto. Qui nevica sempre di traverso.”
Cesira non capisce. Tino sorride.
“È una balla per dire che c’è sempre il vento! Te eri in pianura, ma qua siamo su un bricco.”
“Ah!” sorride Cesira. “Ma io sono contenta di vivere in collina. Mi piace il tuo paese. E poi la pianura non è mica così lontana.”
I campi attorno sono quasi tutti coltivati a frumento e melica. Ci sono anche dei vigneti, ma meno di quel che Cesira si aspettava.
Lungo una strada poco lontano da casa loro, c’è una cappelletta con una Madonnina. Cesira, che è sempre stata devota alla Madonna, prende l’abitudine di andarci con qualche fiore di campo, ogni volta che può.

*****

Nel 1900, con l’arrivo del secolo nuovo, arriva anche Augusto, il primo figlio.
Nel 1901, il 27 gennaio, muore Giuseppe Verdi, grande passione di Tino. Cesira è di nuovo incinta e Tino le dice subito che, se nascerà un maschio, lo chiamerà Giuseppe. Ma pochi mesi dopo nasce una bambina: la chiamano Emma.
Nell’inverno del 1902, Augusto si ammala all’improvviso. Gli viene una febbre alta che non si riesce a curare. Ha due anni e sua madre, col rosario stretto in mano, lo vede morire senza poter far niente. Tino non si arrende: lo avvolge in una coperta, lo prende in braccio e lo porta di corsa, a piedi, dal dottore.
Augusto muore tra le braccia di suo padre, mentre ancora sono per strada.
Cesira ha solo vent’anni; da quel momento, per tutta la vita, vestirà a lutto.

Nel 1903 nasce il Tour de France: una buona notizia per Tino che è un appassionato di ciclismo. Il Tour viene vinto da Maurice Garin, spazzacamino valdostano.
Quello stesso anno, Cesira finisce di accatastare dei covoni di grano in campagna e poco dopo dà alla luce un’altra bambina: Rosa.
Tino sperava in un maschio che lo aiutasse in campagna. “Sarà per la prossima volta” dice, mentre prende in braccio Rosa e le accarezza le guance.
Ma non ci sarà una prossima volta; non arriveranno altri figli.
“Se il Signore ha deciso così…” si rassegna Cesira.
“Eh, ma nei campi a lavorare con me non ci viene mica il Signore” borbotta Tino.

*****

Tino si alza quando ancora è buio, alle quattro, per prendersi cura degli animali e sistemare la stalla.
Mentre sorge l’alba, lui, Cesira (con al collo Rosa ed Emma per mano) e gli altri contadini sono già pronti ad andare nei campi, con gli arnesi in spalla e in mano un fagotto con il pranzo.
Ad agosto si arano i campi di frumento e melica. A novembre si semina. D’inverno si aspetta. “Sotto la neve il pane” dicono i contadini; perché il grano riposa sotto la neve. “Sotto il gelo la fame” concludono. E pregano perché non succeda.
[…]
 

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