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20 Settembre 2008 | Archivio / Lo sguardo altrove, storie di emigrazione

Joseph Vecchi, i menù della storia (prima parte)

Lo sguardo altrove: storie di emigrazione

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

20 settembre 2008

Quando si dice “una vita avventurosa”, non si può non pensare a quella del bolognese Giuseppe Vecchi, trascorsa tra le atmosfere scintillanti dei grandi alberghi europei, là dove i menu seguivano di pari passo la storia. Non di rado, infatti, capitava al maître – la cui prima virtù dev’essere la discrezione – di servire personaggi che di lì a poco avrebbero cambiato il corso del mondo. Vecchi ha vissuto quella che Savinio chiamava la “girevole vita delle camere d’albergo” e che lui stesso, nella sua autobiografia pubblicata a Londra nel 1948, citando l’Enrico IV di Shakespeare ha così riassunto: the tavern is my drum.

Ma andiamo con ordine. Giuseppe Vecchi è nato a San Giovanni in Persiceto, vicino a Bologna, nel 1892. Il padre, barbiere, avrebbe voluto avviarlo agli studi musicali ma lui decise di emigrare in Francia, ancora adolescente, per lavorare come cameriere. Fece le prime esperienze a Nizza, Aix les Bains e Parigi, finché nel 1906 venne assunto all’Hotel Claridge’s di Londra da un persicetano che ne era divenuto direttore.

Al Claridge’s erano ospiti fissi principi, statisti e miliardari, come gli americani Vanderbilts e la principessa Radziwill. In questo ambiente elegante e raffinato Giuseppe imparò il mestiere e in soli sei mesi venne nominato floor waiter, direttore di sala. Gli anni 1910-11 furono speciali per Londra: dapprima i funerali del re Edoardo VII e poi le cerimonie dell’incoronazione fecero confluire al Claridge’s teste coronate e nouveaux riches. Un sontuoso Coronation Night Gala ebbe luogo nell’albergo, mentre tutta la città era un susseguirsi di festoni, bandiere, ghirlande, luci.

Desideroso di migliorarsi, il giovane Vecchi non si lasciò sfuggire l’occasione di lavorare al Kaiserhof Hotel di Berlino, noto nell’ambiente internazionale per la severa disciplina e il servizio perfetto. Ben presto, però, rimpianse Londra perché l’atmosfera al Kaiserhof era fortemente militare e lo staff dell’albergo sembrava essere stato addestrato in una qualche caserma. I clienti, tra cui spiccavano personalità dell’esercito come il Principe Guglielmo e il generale Von Moltke, non davano ordini ma li “gridavano”. Alle cene del Principe erano ammessi solo gli alti gradi militari e si parlava, fino alle prime luci dell’alba, sempre e solo di guerra. Anche a causa dell’assenza delle signore, queste cene avevano qualcosa di sinistro, come traspariva dai brandelli di conversazione che Vecchi riusciva ad afferrare. Un rumore di sciabole si sommava a quello delle stoviglie in cucina.

Tuttavia Berlino a quei tempi era una città gaia, celebre per la sua vita notturna, e il maître bolognese ebbe modo di conoscere anche il lato sentimentale dei tedeschi. La notte in cui al Kaiserhof si festeggiò il compleanno dell’imperatore (la cui fotografia compariva su ogni menu), poté farsi un’idea della strana eleganza delle giovani signore, i cui abiti, pur sontuosi, sembravano fatti per durare a lungo e renderle anche più vecchie della loro età. Il giorno, all’inizio del 1912, che vide arrivare in albergo lo zar e la zarina di Russia per il matrimonio della figlia del Kaiser, Vecchi si innamorò della Russia. Avendo notato come il personale al seguito dello zar fosse cordiale e disponibile al dialogo, a differenza degli impettiti ufficiali tedeschi, maturò la decisione di trasferirsi in quel grande paese appena possibile.

Poco dopo, per una fortunosa coincidenza, un amico italiano appena assunto all’Hotel Astoria di San Pietroburgo, lo aiutò a trovare un posto nello stesso albergo. Giuseppe giunse nella città delle notti bianche nel settembre 1913, e fu amore a prima vista. Le città, pensava, come le persone hanno un carattere; e le cupole dorate, le architetture neoclassiche, le vie silenziose lungo la Neva con i loro imponenti palazzi, gli dicevano che questa era la “sua” città. Tanto più che ad accoglierlo, come direttore del ristorante, vi era un italiano che aveva lavorato al Savoy di Londra.

A San Pietroburgo Giuseppe dovette presto scordarsi la severa disciplina appresa a Berlino, perché la sua efficienza rischiava di rovinargli i rapporti con gli altri membri dello staff. Altro motivo di sorpresa fu il menu dei due ristoranti dell’Astoria, il francese, dove lui avrebbe prestato servizio, e il russo: non aveva mai visto una scelta di piatti tanto ricca. Con l’inverno giunse anche la stagione dei Balletti Russi, con la Pavlova e Nijinsky acclamati sulle scene e la Kchessinskaya, prima ballerina del Teatro Imperiale, assidua frequentatrice del ristorante. Gli spettacoli di danza erano spesso seguiti da feste all’Astoria, dove gli esuberanti clienti si abbandonavano al vino, al canto, all’allegria. Ormai a suo agio nel nuovo ambiente, Vecchi aveva l’onore di servire illustri personaggi, tra cui il Granduca Dimitri Pavlovic, il primo che si rivolse a lui chiamandolo per nome.

Fu subito dopo le feste di Pasqua del 1914 che il giovane maître percepì un cambiamento d’atmosfera nell’hotel: ai tavoli riservati, i membri delle ambasciate erano in perenne agitazione, mentre i camerieri tedeschi diventavano sempre più scostanti e non facevano altro che cambiare i loro rubli in oro. Nel luglio dello stesso anno il direttore italiano del ristorante lasciò l’albergo e Vecchi prese il suo posto. Ad agosto scoppiò la guerra e immediatamente vennero arrestati i proprietari e i camerieri tedeschi dell’Astoria. Il lavoro di direzione del ristorante si fece per Giuseppe particolarmente gravoso, mentre la città, là fuori, risuonava di canti patriottici e delle parate dei cosacchi. Dall’hotel era sparita l’allegria di un tempo, nonostante il Granduca Dimitri si sforzasse di organizzarvi feste. A corte, intanto, cresceva sempre di più l’influenza sinistra di Rasputin, che si diceva tenesse in suo potere la zarina. All’Astoria il terribile monaco capitò in occasione di una cena organizzata in suo onore da una principessa. Nelle sue memorie, Vecchi ricorda di non avere mai avuto cliente più maleducato e detestabile. Rasputin era d’aspetto trasandato e poco pulito; beveva a garganella e mangiava con le mani in una saletta riservata, circondato da dodici dame accompagnate dalle loro giovani figlie che ridevano ad ogni sua volgare battuta. Nessun ospite maschile era stato ammesso alla festa.

La città, che aveva mutato nome in Pietrogrado, soffriva le sconfitte della guerra e la fame. Quando anche l’Astoria fu requisito e trasformato in una lussuosa caserma, l’avventuroso bolognese decise che era tempo di cambiare aria. Per un po’ lavorò al “Felicien”, un ristorante sulla Neva, nei dintorni di Pietrogrado, aperto solo d’estate. Nell’autunno del 1916 tornò in città, al “Bear Restaurant”. Lì ricevette l’offerta di gestire il ristorante del Grand Hotel di Kiev dal nuovo proprietario, un banchiere che aveva a lungo frequentato l’Astoria.

L’amore per la Russia non era ancora svanito, e infatti Kiev, con le cupole dorate delle sue chiese, gli apparve come un luogo fiabesco immerso nei boschi di betulle. Benché la clientela del Grand Hotel non fosse così importante o alla moda come nei precedenti locali che aveva diretto, Giuseppe si impegnava a fondo: aveva assunto un ottimo cuoco e andava di persona al mercato a fare gli acquisti giornalieri. Quando apprese, nel novembre 1916, che nei dintorni della città era stato installato un campo di prigionieri austriaci provenienti in gran parte dalla zona di Trieste, e dunque in grado di parlare italiano, ottenne il permesso di far loro visita e di organizzare, nei giorni di Natale, una festa nel ristorante. Immaginiamoci la scena: un plotone di prigionieri malridotti in marcia nella neve, direzione Grand Hotel, scortati dalla polizia. A conclusione della festa, ogni prigioniero volle ringraziare personalmente il maître di Persiceto, per il quale quel momento di grande commozione (le lacrime scorrevano a fiumi) divenne uno dei ricordi più belli.

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