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23 Settembre 2008 | Archivio / Lo sguardo altrove, storie di emigrazione

Joseph Vecchi, i menù della storia (seconda parte)

Lo sguardo altrove: storie di emigrazione

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

23 settembre 2008

Intanto la Russia correva veloce verso la tempesta. Prima arrivò la notizia dell’assassinio di Rasputin, gettato nella Neva, poi quella dell’arresto del Granduca Dimitri, sospettato dalla zarina di aver complottato contro il monaco, e infine quella delle truppe tedesche ormai prossime a Kiev. Per un italiano, restare in città poteva diventare pericoloso e Giuseppe decise allora di far ritorno a Pietrogrado.

Arriva, così, il fatidico 1917. Il 13 marzo il portiere dell’Astoria, dove Vecchi era tornato come direttore e comproprietario, gli dice: “Non sente? Le fruste schioccano nel cielo”. Il giorno dopo i soldati dello zar piazzano le mitragliatrici sul tetto dell’albergo. Sotto, una folla di rivoluzionari chiede la consegna degli ufficiali zaristi barricati lì dentro. Dalle mitragliatrici esplodono i primi colpi, la folla inferocita parte all’attacco, vanno in frantumi i vetri dell’albergo, il sangue scorre sui tappeti preziosi, restano a terra anche gli strumenti di un’orchestrina tzigana che aveva suonato fino a poco prima. Insieme all’Astoria se ne va in fumo anche la fortuna accumulata da Vecchi in migliaia di notti di duro lavoro. Tutto brucia nelle fiamme della Rivoluzione.

Nel tentativo di riorganizzarsi la vita, il giovane bolognese accettò da un suo vecchio cliente, il signor Zaslawski, l’offerta di dirigere il ristorante del “Little Palace”, un club teatrale di prossima apertura. Nel frattempo prese a frequentare casa Zaslawski, dove la signora amava circondarsi di numerosi ospiti, i cui discorsi, ricorda Vecchi, finivano inevitabilmente in politica. Il più interessante, in questo circolo di intellettuali per il quale lui preparava pranzi e cene, era un piccoletto dalle cui parole tutti venivano catturati, di nome Trotzkij. E un altro frequentatore del cenacolo di casa Zaslawski era un certo Lenin. In quel periodo Vecchi aveva spesso l’occasione di incontrare anche il direttore della Pravda: si chiamava Stalin… “Mentre mi preoccupavo di compilare i menu – racconta Giuseppe nella sua autobiografia – accanto a me si faceva la storia”.

Il “Little Palace” fu aperto in settembre ma già a novembre il lavoro cominciava a diminuire perché la gente, a causa della situazione politica, preferiva starsene chiusa in casa. Il 7 novembre 1917, con la presa del Palazzo d’Inverno, Lenin conquistò il potere. La notte del 23 le strade di Pietrogrado risuonarono di spari e di grida. La mattina dopo Vecchi vide i camion che raccoglievano i cadaveri. Quello stesso giorno il “Little Palace” fu requisito. Con la morte nel cuore, Giuseppe decise di abbandonare la Russia. Adesso rischiava di passare per controrivoluzionario.

Da Pietrogrado raggiunse Murmansk dopo un viaggio in treno di una settimana. Da lì si imbarcò su una nave diretta in Italia. Tornò a Persiceto, il suo paese natale, accolto calorosamente dai familiari e attorniato dalla curiosità della gente, soprattutto operai e contadini che gli chiedevano informazioni sulla Rivoluzione vissuta da testimone. Finita la guerra, tentò inutilmente di tornare in Russia, dov’erano rimasti tutti i suoi beni. Rimase bloccato prima a Istanbul, poi a Yalta. Dopo dodici anni all’estero, era di nuovo povero.

Ora si trattava di riprendere le fila di un’esistenza sconvolta dal destino, che l’aveva collocato proprio dentro una rivoluzione. Rimise piede a Londra nel febbraio 1920, senza un soldo, mentre i vecchi amici, soprattutto gli emiliani, avevano accumulato fortune con i loro ristoranti. Tutti si fecero in quattro per aiutarlo: per un po’ lavorò come maître al “Piccadilly Grillroom”, poi tornò in Italia per dirigere il Grand Hotel di Rimini nella stagione estiva, in autunno riprese la via per Londra, dove passava da un ristorante all’altro. La nostalgia per la Russia, la sua lingua, le sue musiche, lo divorava ancora, tanto che gli amici lo chiamavano “Bolshie”, bolscevico. Nella breve permanenza a Persiceto, annota nel suo diario, gli accadde un fatto curioso: gli stessi che prima pendevano dalle sue labbra quando parlava della Rivoluzione d’Ottobre, ora gli chiedevano (ma senza successo) di iscriversi al Partito Fascista.

Il dopoguerra in Inghilterra fu particolarmente felice. La gente aveva voglia di divertirsi, era cominciata l’età del jazz e le signore portavano gonne corte e capelli alla maschietto. Nel 1927 Giuseppe dirigeva il ristorante del Green Park Hotel, dove aveva introdotto piatti russi e musiche tzigane, quando un ricco produttore di cotone conosciuto in Russia gli comunicò l’intenzione di aprire un ristorante ungherese a Londra. L’Hungaria venne inaugurato l’8 ottobre 1928, dopo che Vecchi era tornato da Budapest con la carta dei vini e con Rigo, un eccezionale violinista tzigano, scovato in un caffè frequentato da studenti. Superata senza troppi danni la depressione economica seguita al crollo di Wall Street, l’Hungaria – di cui Vecchi era socio insieme a un altro italiano – divenne uno dei locali più “in” della capitale, frequentato da personaggi quali il Duca e la Duchessa di York, il Principe di Galles, il musicista Franz Lehar, il tenore Richard Tauber, il violinista Yehudi Menuhin, l’ammiraglio Lord Mountbatten. Nel ’34 e nel ’35 l’Hungaria celebrò con cene di gala gli avvenimenti che riguardavano la famiglia reale, come fidanzamenti, matrimoni, anniversari, e Vecchi in persona, nel ’39, ebbe l’onore di allestire a Tyne Valley Estate un pranzo per il Re e la Regina e i loro amici.

Presa la cittadinanza britannica, Joseph Vecchi conobbe un successo ininterrotto, tant’è che nel ’53, diversi anni prima della morte (avvenuta nel 1961), per festeggiare i 25 anni dell’Hungaria gli inglesi vollero collocare nella hall dell’hotel un grande busto in bronzo con la sua effigie, opera dello scultore Epstein. Sulla base stava scritto: “Joseph Vecchi – Prince of Restaurateurs”.

Immortalato da vivo, come a nessun “restaurateur” del mondo è mai capitato, “Bolshie” negli anni finali ha spesso ripensato alla sua vita come a un film proiettato troppo velocemente. Avrebbe voluto soffermarsi di più sulle inquadrature, conoscere meglio i personaggi che c’erano dentro. Due fotogrammi in particolare aveva scolpiti nella memoria. Primo: la festa di fine anno del ’32 all’Hungaria, organizzata secondo la tradizione russa, con l’arrivo inaspettato del Granduca Dimitri e il commovente incontro che ne seguì. Secondo: il tanto agognato ritorno in Russia, anche solo per un breve viaggio. Accadde nel 1936: l’Hotel Astoria era stato ripristinato, in parte vi lavorava ancora il personale da lui conosciuto, ma vi dominava un’atmosfera trasandata – segno che il paese aveva altro cui pensare, e che il periodo in cui gli ufficiali gettavano gioielli ai piedi delle danzatrici dei Balletti Russi era definitivamente sepolto.

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