“Gli archivi sono giganti silenziosi. Si svegliano e cominciano a parlare se poniamo loro domande dirette, se li scuotiamo dal torpore grazie a determinate prospettive, a punti di vista particolari, o li rendiamo vivi con il nostro interesse, riportando il loro potenziale nel presente”. Questa dichiarazione di Urs Stahel, curatore della mostra “La Forza delle immagini” al MAST di Bologna fino al 24 settembre, riassume la modalità attraverso la quale ha selezionato le immagini esposte, oltre cento opere dagli anni Venti del Novecento all’oggi di ben sessantasette autori provenienti da tutto il mondo.
Il punto di partenza privilegiato è la vastissima collezione di fotografie della Fondazione MAST, avviata cinque anni fa. Conserva gli scatti di alcuni dei nomi più rilevanti della fotografia mondiale, dai maestri del passato a grandi autori contemporanei. Si tratta di migliaia di immagini che coprono l’intera storia della fotografia dell’industria e del lavoro dal 1860 a oggi. Sono presenti tutte le tematiche attinenti al mondo del lavoro, paesaggi e architetture, macchinari, operai e quadri, vita sociale, sindacati e scioperi, e tutti i settori, dal minerario al metallurgico, dall’alimentare all’elettronico.
Addentriamoci allora, cari ascoltatori, nelle luminose sale del MAST, accompagnati ancora una volta da un’indicazione di Urs Stahel tratta dal catalogo che accompagna la mostra: “Le fotografie possono fare molto più che definire, descrivere. Sono incisive, sviluppano forze d’irradiazione, penetrano sotto la pelle, si insinuano dentro di noi anche emotivamente, comunicando non un messaggio univoco, bensì due, tre, quattro concetti diversi e paralleli”. Siamo invitati quindi ad interagire con queste immagini e partiamo subito dagli scatti di Richard Avedon. Se è vero che il lavoro è una “gigantesca macchina che produce identità”, i suoi famosi ritratti, isolati dall’ambiente di lavoro, ci danno un senso di smarrimento e di alienazione che è ancora più potente di quando vediamo operai e quadri “immersi” nelle loro attività quotidiane.
Nella prima parte dell’allestimento è il metallo, materia prima di una lunga epoca industriale, a dominare. Ce ne offrono immagini diversi autori, da Berenice Abbot a Nino Migliori, ne esaltano la pesantezza, l’oscurità del processo produttivo, fino alla deformazione in “fogli di metallo distorti”, così come intitola un suo scatto il fotografo giapponese Kiyoshi Niimaya. Poi arriva l’acciaio, la plastica, la gomma, il catrame e l’asfalto. Nella grande opera dello svizzero Rémy Markowitsch i dettagli delle macchine diventano creature animali surreali, mentre Jules Spinatsch, anche lui svizzero, ci propone una grande fotografia che condensa in un’unica immagine ottocento scatti, un viaggio computerizzato attraverso un turno di otto ore in un impianto di produzione di trattori. Le decine di lavoratori, piegati da pesanti sacchi sulle spalle, nella miniera della Serra Pelada in Brasile della foto di Sebatiao Salgado ci fanno riflettere sulle condizioni di schiavitù del lavoro, mentre la discarica a cielo aperto di Dhaka, in Bangladesh fotografata da Jim Goldberg ci allarma e invita in un qualche modo alla ribellione contro il degrado e la desolazione.
“E’ grazie alla forza delle immagini che col tempo potranno compiersi le vere rivoluzioni”, scriveva André Breton. Una frase su cui riflettere.
Tutte le informazioni sulla mostra, a ingresso gratuito, sul sito www.fondazionemast.org
Un saluto da Carlo Tovoli