Poeta, redattore, organizzatore di iniziative culturali, il ventottenne ferrarese Matteo Bianchi ha portato a termine la sua quarta raccolta di versi.
Tertium non datur
Le bastava occuparsi di me
la sera di ritorno dal lavoro,
ai fornelli in cucina
una tisana, una carezza
nel fine settimana.
La tua realtà sprovveduta
aveva una dignità,
ma la sua era la mia priorità.
E nel gioco al soldo delle tre carte
due si coprono, nell’attesa
si riveli la terza.
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La tua pelle sapeva di glicine
nelle strette premurose al collo.
Era la crema per il corpo,
per il dovuto riposo.
Ti davo ancora un bacio,
così duravi di più.
«Tutto sommato, siamo
una bella famiglia.
Tornerei dai miei congiunti,
ma le ragazze
hanno bisogno di me.
Voglio restare qui,
ho detto a Quello lassù».
Le parole di un malato terminale
hanno più diritto di restare
di qualsiasi altra?
Compreso un «grazie
di essere passato».
Bastava una volta ogni tanto.
Non le dovevo promettere
che il giorno seguente sarei tornato.
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Il ragno, magari, ignora
l’inquieta bellezza che ha creato
sul filo è necessaria la postura
ma tu non dimenarti
ascolta il tuo respiro
dosalo
non soffiare sulla tua sofferenza
abbine cura
la tela, una volta tessuta e tesa
già non è più tua.
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Gioco a tempo
Sbuffa l’acqua bollente
contro il metallo di una teiera
e si dimena:
solo il freddo si nota
uscendo da una casa riscaldata.
Finisce sempre troppo presto.
Il viso che appena tuo s’intende
ormai dal mio diviso
mi saluta con lo sguardo,
un cenno della mano tra le tende.
Finestre illuminate in fondo al viale,
il pelo annoiato di un gatto
avviluppato tra le mie caviglie
trattenermi dai blocchi della corsa:
arancione inferno invernale
e un’automobile ad aspettare.
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Vita privata
«Ti andrebbe…» mi dicevi
fiera, esibendoti posata,
e non chiedevi mai
una scappata nel nostro letto
adesso, che non torni
da Parigi, non mi va
più di cucinare:
due uova sode, sole,
solide? Mai abbastanza.
Ho finito anche il sale.
Non mi siedo a tavola,
bocconi veloci in piedi
e freddi i tuoi baci
nel ricordare
dovrei ridere sopra
tutte le volte che
ho domandato perché ti ho sposata.
Mi vergogno delle docce calde
e impotenti, del letto sfatto
nel quale non riposo,
ma mi scopro a fantasticare.
Adesso, cara, mi andresti tu,
persino innamorata.
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Un significato è un abito
e mi domando allo specchio
se mi stia addosso
il nostro,
se non sia troppo per me,
se io sia pronto.
Altrimenti andrei nudo
a zonzo.
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Era il pacchetto di Camel blu
sulla vecchia radio di famiglia
il lascito di mio papà,
l’ansia che sembrava liberazione.
Lui diceva che l’amore,
quello vero, se ne va
come ci ha sorpreso:
non fa domande.
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Maria Maddalena
Gli lavavo i piedi impolverati e mal ridotti.
Glieli asciugavo coi miei capelli, delicati,
e li profumavo con l’olio:
il migliore in mio possesso.
Lui, considerato da noi il più distante.
Lui, il più radicato alla terra,
ci credeva, scalzo, e sopportava,
smagrito ulivo dal terremoto.
Camminava fino allo stremo.
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Sono nati i narcisi ovunque:
sugli argini del fiume consumati,
nelle cune verdi dei rifiuti,
intorno ai binari dismessi.
Non hanno aspettative
e se li cogli, non si tengono:
un vaso non vale il rimpiazzo.
Sono liberi,
ma non lo sanno.
Poesia è un soffio sui narcisi:
il mio legno diviene anima
e il mio sasso ragione.
Noi siamo
solo se accettiamo di non essere.