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23 Agosto 2014 | Paesaggio dell'anima

La poesia della Bassa. Parte II

Un viaggio in regione attraverso la musica

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Alessia Del Bianco.

Gorni Kramer: Crapa Pelada.

Che estate, cari ascoltatori! Il caldo e il sole si sono visti poco: luglio sembrava già autunno, solo ora agosto cerca di farci recuperare il bel tempo perduto; ma tra una settimana è settembre, e la vita e il lavoro – o almeno ciò che ne è rimasto – riprenderanno i loro ritmi abituali. La ruota gira, come sempre, e le difficoltà attuali, di persone che hanno perso il lavoro, si sono impoverite o semplicemente hanno abbassato le proprie aspettative, ci riportano indietro di decenni, nell’era pre-internet, dove anche la tv, se c’era, era più umana, e la società dei consumi era appena in bozze; e di finanza e di globalizzazione neanche si parlava. C’era più tempo, allora – più o meno nella stagione del neorealismo, di cui Cesare Zavattini è stato uno dei protagonisti – di guardare in faccia la gente, osservarla nelle sue grandezze e miserie, prendere appunti su un bloc notes e scrivere dei versi, perché “la realtà – diceva Zavattini – è un continuo stupore”. Michele Marini (clarinetto) e Daniele Donadelli (fisarmonica) sono due giovani musicisti che nel loro ultimo lavoro, Ballando Kramer, hanno reso omaggio a un grande maestro della Bassa, Gorni Kramer, compositore e direttore d’orchestra, che ha saputo fondere, in un migliaio di canzoni, musica da ballo emiliana, swing americano e canzone italiana degli anni Trenta e Quaranta.

 Marini – Donadelli: Clarinetto pazzo (di Gorni Kramer).  

Sono briciole fragranti di una calda pagnotta, le poesie in dialetto di Cesare Zavattini. Ve ne leggiamo alcune in traduzione, anche se si perde il suono delle aspre inflessioni celtiche, perché il reggiano solo i reggiani lo capiscono, com’è ovvio. Ma no, aspettate, questa ve la dobbiamo leggere in dialetto: «Véta véta, cus’èla? Mei tasér. / An vrés mia disturbà chi du là / chi è dré a gusars’in mès a l’erba». Erano i tempi in cui si faceva l’amore nei prati, i tempi in cui la vita non aveva tante certezze cui aggrapparsi, e quindi ogni esperienza era più intensa, e doveva essere detta in dialetto, che è – per lo scrittore – una lingua segreta, iniziatica, cui si ritorna da vecchi, intenerendosi sulle cose del passato. Al capel d’paia, “Il cappello di paglia”, è il titolo di questa lirica: «Una mi ha confessato: mia madre si faceva (hai capito) / dal padrone del podere / dove eravamo mezzadri. / Lui diceva andiamo / in granaio a contare / i sacchi del frumentone. / Io correvo dietro alle faraone, / la zia faceva la sfoglia, / di nostro padre / vedevo il cappello di paglia / in fondo alla piantata».

I Violini di Santa Vittoria: Benassù.

Questa è la poesia della Bassa, che ti fa amare i luoghi in cui sei cresciuto: «Ci si può innamorare dappertutto / ma dove sei nato di più. / Non è questione di cosce di tette no, / la donna luzzarese quando ride, / anche da lontano, / basta perché (e questo ve lo diciamo in dialetto) sübét a mé l’am sdrésa / cme pr’an flaut». Nel deserto della canicola estiva, su queste strade sembra che il tempo non sia mai esistito. Ieri, cari amici, girando in bicicletta nei paesi deserti e in campagna, tra il granturco e qualche biscia nell’erba, siamo arrivati a Cavriago. Prima c’è un posto che si chiama Codemondo, vale a dire caput mundi, il posto in cui finisce tutto: il nome di questo paesino, storpiato in Ko de mondo, è diventato il titolo di un disco del 1994 di un gruppo reggiano che ha fatto la storia del rock italiano: i CSI (Consorzio Suonatori Indipendenti). Ko de mondo – ha spiegato il leader dei CSI Giovanni Lindo Ferretti – sta anche per “k.o. del mondo”, cioè mondo occidentale al tappeto, fine della terra.

C.S.I.: Del Mondo.

Torniamo alle poesie di Zavattini. «Forse l’emozione più grande della mia vita / è stata una notte, c’era un’afa, un fermo, / come prima del terremoto, / Dio entrò nella mia camera impalpabilmente / e mi disse a te solo a te / faccio sapere che non esisto». Questi sono i pensieri che circolano nella Bassa sanguigna e crepuscolare, rude e delicata come le sculture plasmate un migliaio d’anni fa da Wiligelmo nel duomo di Modena. «Mi piace sentire cantare – scrive ancora Zavattini – le donne in processione, sembrano bambine, / lontane anche se vicine. / Eccole qui che passano / sotto il mio balcone in fila / con le candele sgocciolanti in mano, / l’aria che viene dal Baldo svia l’incenso in coda / tra le lanterne dei carabinieri, / suonano le campane, sono commosso, / la terza dagli occhi fissi / che vede Nostro Signore / stasera faremo l’amore / (con un metro di lingua in bocca)». Sentimenti, amore per le cose vive, estri improvvisi: così i critici hanno lodato le 50 brevi liriche di Stricarm’in d’na parola. Ultimo fermo immagine di un film neorealista, e poi chiudiamo. «Prima della buona notte / facciamo due passi /lungo le strade vuote. / Sembriamo la ronda. / Sotto finestre chiuse, / sottovoce ragioniamo di donne / saranno dietro a sognare, a farsi pompare / da quegli stronzi di mariti? / Quando ci fermiamo / alla Zamiola / si sentono / le nostre pisciate nel fossato e un mah».

Marini – Donadelli: Silenzi assordanti. 

 

 

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