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25 Febbraio 2008 | Archivio / Lo sguardo altrove, storie di emigrazione

La saga dei “Suress”. Prima parte

Lo sguardo altrove: storie di emigrazione

Cominciamo questa storia dalla fine. Nonno Oreste è sul letto di morte. Ha 97 anni e siamo nel 2001, a Caracas. Lo va a trovare Guido Guazzo, architetto famoso che cedeva volentieri al nonno il timone della sua barca, una Gran Soleil uscita dai cantieri del Pardo di Bologna. L’architetto ha con sé la fisarmonica, che non suona da anni. Nonno Oreste intona una vecchia canzone, “All’alba se ne parte il marinaro…”: tutti cantano con le lacrime agli occhi.

Torniamo indietro al 1928. C’è una foto che ritrae Oreste Soressi con la mamma Angela e il papà Giuseppe davanti alla loro casa di Pieve Dugliara, frazione di Rivergaro, un paese in provincia di Piacenza dove oggi, d’estate, vanno i piacentini in fuga dall’afa cittadina a godersi l’arietta serale.

Il mondo del mio bisnonno Giuseppe aveva confini stretti: finiva nei campi che lavorava intorno a casa. Negli ultimi anni si occupava di una piccola vigna a Poggio della Cavalla, dove poi sarebbe sorta la zona residenziale con le ville degli emigranti piacentini che tornavano da Londra e quelle dei piacentini di città.

Nonno Oreste si accorse che il mondo non era tutto uguale quando nel 1924 partì per il servizio militare. Fu arruolato in aviazione e mandato sul lago di Bracciano, dove ebbe come primo incarico quello di insegnare ad andare in bicicletta al figlio del generale Nobile, il celebre comandante della spedizione al Polo Nord. Conobbe anche Italo Balbo, elegantissimo nella sua divisa bianca, e l’audace aviatore Francesco de Pinedo. Fu durante il suo servizio in aeronautica che parte della famiglia, piagata dalle difficoltà post-belliche, decise di emigrare. Partirono per l’Argentina sulla nave Conte Biancamano il fratello Lodovico e le sorelle Antonia e Maria.

Passano gli anni. Lettere e biglietti d’auguri arrivano sempre puntuali dall’Argentina, ma il primo a farsi vivo è Luisito, il figlio di Antonia. Giovane ufficiale di marina, la sua nave cala l’ancora in un porto inglese. Luisito allora prende il treno e va a Piacenza a conoscere i parenti italiani: lo zio Oreste (mio nonno) e il cugino Franco (mio padre).

 

Quando il Sudamerica assomigliava a un romanzo di Garcia Marquez

Il nonno aveva tanta nostalgia dei suoi fratelli, ma sarà mio papà Franco il primo a fare visita ai parenti di Buenos Aires. E’ il novembre 1970 e mio padre sceglie un itinerario complicato. Da Bruxelles a Curaçao e da lì a Panama, dove si ferma alcuni giorni per andare a trovare una ragazza che aveva conosciuto all’Università di Friburgo in Svizzera. Poi vola in Perù, dove ad aspettarlo c’è il padre salesiano Jorge Casanova, il cui fratello aveva sposato la figlia di Lodovico, il fratello di mio nonno Oreste. Mio papà e padre Jorge insieme vanno in Bolivia: visitano le rovine di Tihauanaco, Cochabamba e altre comunità sepolte nella selva, e La Paz, dove le donne nel 1970 portavano ancora la bombetta e al mercato non si capivano i prezzi perché gli indigeni parlavano solo quechua o aymarà. Sui monti c’erano ancora i seguaci di Che Guevara e mio papà racconta che i giornali del tempo riportavano la storia di un seminarista che si era unito alla guerriglia. Al mercato il suonatore di charango allietava le compere e le donne vendevano le arance una ad una, per avere abbastanza merce da tirare fino a sera. L’America Latina, allora, non era tanto diversa dal realismo magico dei romanzi di Garcia Marquez.

Finalmente arriva per Franco il momento di visitare i parenti d’Argentina. Zia Antonia risiedeva a Lomas de Zamora, vedova di Luis Cammi che aveva avviato una macelleria. Il loro figlio Luis aveva fatto carriera nella marina e abitava con la famiglia in uno dei quartieri più eleganti di Buenos Aires. La marina gli conservava il diritto alla macchina e all’autista fino alla pensione, che arriverà poco prima del golpe militare del 1976. Anche lo zio Lodovico viveva a Lomas de Zamora, mentre le cugine di papà e la famiglia di padre Jorge abitavano a Temperly. A proposito di padre Jorge, per i suoi alti incarichi in Congregazione gli capitava di venire spesso in Italia. Da Roma, appena poteva, raggiungeva la campagna piacentina per andare a trovare la famiglia “di Suress”. Avrebbe partecipato anche al matrimonio di mio papà Franco con Loyda, la ragazza panamense.

Il viaggio di Franco in Argentina fu un avvenimento per la mia famiglia. I suoi zii erano ancora tutti vivi con figli e nipoti. Mio papà, accolto con grandissimo affetto, dovette accollarsi la sequenza interminabile dei pranzi. Al terzo invito si diede per malato perché non ce la faceva a mangiare tanta carne. La “parrilla” era un rito con una liturgia precisa. Dietro casa tutti avevano un barbecue gigante. Si conosceva l’ora dell’inizio, ma mai quando il pranzo finiva. Anzi, spesso continuava ininterrotto fino a congiungersi con la cena.

Elisa Maria Soressi, Caracas, luglio 2007

Lettura di Mascia Foschi

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