5 luglio 2012
Un grande esordio letterario, “L’avvocata delle vertigini” di Piero Meldini, pubblicato da Adelphi nel 1994 e ristampato nel 1999, vincitore del Premio Bagutta nel 1995. Nato a Rimini nel 1941, dov’è stato a lungo direttore della Biblioteca Gambalunghiana, Meldini ha scritto altri due importanti romanzi per Adelphi: nel 1996, “L’antidoto della malinconia” e nel 1999 “Lune”. E’ anche autore di un numero imprecisato di saggi.
Ne “L’avvocata delle vertigini” il tema è una profezia che si avvera e diventa delitto. Protagonista di questo noir apocalittico è Vincenzo Dominici, un agiografo, topo di biblioteca, che si sta interessando della vita della Beata Isabetta, copatrona della città. In biblioteca conosce Manara il bibliotecario, che gli permette di decrittare un antico manoscritto contenente un messaggio in codice dedicato alla Beata, che racconta dell’avverarsi di sette profezie apocalittiche.
Dominici si fa talmente coinvolgere da questa profezia che si reca dal giudice Bosio – dopo aver avvertito l’amico monsignor Berlinghieri – per riferirgli che sarebbe morta nei giorni seguenti una donna, e che l’assassino sarebbe stato lui stesso. Trovato il cadavere della donna, Dominici viene arrestato e rinchiuso in un pensionato per malati mentali. Dopo alcuni giorni emerge la verità. Il bibliotecario era riuscito a decifrare l’antico manoscritto prima di consegnarlo a Dominici e aveva calcolato il tempo che l’agiografo avrebbe impiegato per scoprirne il contenuto. Manara amava la moglie di Dominici e non poteva sopportarne il rifiuto; scaglia così la sua rabbia su Dominici uccidendo la povera donna che frequentava la biblioteca, poi trovata morta davanti al cancello di Dominici.
“Il romanzo si fa davvero curioso e intrigante dove riesce a mischiare, con finto rispetto e vera irriverenza, il giallo con la speculazione religiosa, la riflessione esistenziale con le bassezze del quotidiano, l’inevitabilità del delitto con l’attesa della morte. E tutto con un linguaggio nel complesso lucido, serrato e teso”, ha scritto il critico Angelo Guglielmi.
L’avvocata delle vertigini
La tomba era collocata nella parte più vecchia del camposanto, quella cosiddetta monumentale, là dove una nobiltà terriera dissanguata, che andava frattanto spogliandosi dei propri palazzi, aveva costruito ai morti, con gli ultimi spiccioli, quelle dimore di famiglia da cui i vivi traslocavano. Era così sorta, tra la fine del secolo scorso e il principio di questo, una costellazione di edicole, equamente divise in chiesine neogotiche, per gnomi più che per defunti, e piccoli mausolei greci e romani per bambini archeologi: le une a riparare le ossa dei credenti, gli altri quelle dei liberi pensatori, qualora un Aldilà accomodante riservasse a cristiani e pagani differenti Campi Elisi, a seconda dei gusti. Anche i sepolcri e le cripte, nel campo, alternavano le croci e gli angeli scuri in volto alle urne e alle colonne mozzate: i commercianti e gli artigiani che qui riposavano avevano ereditato dai nobili, mitigandola e spesso contaminandola, la contrapposta simbologia funeraria.
Al centro del campo, in un pezzetto di terra ceduto da un’anima buona, c’era la tomba della fidanzata di Dominici: una lastra di marmo chiaro col nome, le date ravvicinate dell’alfa e dell’omega e la fotografia; lapide taciturna, nel sussiegoso cicaleccio delle epigrafi che sbandieravano ai quattro venti le virtù innate e i meriti acquisiti dei vicini. Era stato piantato, lì accanto, un cipresso, che in trent’anni era diventato una longilinea sentinella robusta sulle gambe.
Manara guardò la tomba. Il giovane viso aperto gli sorrideva. Un’onda di ricordi sfioriti lo lambì, come frammenti di musica trasportati dal vento. Accarezzò, con l’indice, il ritratto ovale, quasi ne volesse sfogliare le pagine segrete. Si sedette su un cippo. Quella vita che lo schiacciava, non se l’era scelta. E nemmeno la corporatura. Né la miopia. Né il colore degli occhi. Né la calvizie. Tutto quello che aveva deciso era un’ombra di baffi. La cravatta. E i modi, per quanto dipendeva da lui.
Della vita, sua e degli altri, avvertiva ogni giorno, fin dalla prima giovinezza, la camminata – e il fiato – pesante. Tutto si trascinava faticosamente, per la salita, col rumore sordo dei terremoti. In questo sentimento che nessun altro al mondo sembrava provare, in questa inscindibile convivenza con la stanchezza, stava
la sua grandezza solitaria che i superficiali, i poeti, chiamavano mediocrità.
Testimone e profeta della fatica – ansimante motore delle cose -, aveva sacrificato la grazia nelle lettere per la mole, il peso, la solidità. Un muro compatto, un macigno: così amava pensare alla sua opera. Quante pagliuzze d’oro aveva seminato, accumulando sabbia? Setacciando la sabbia aurifera delle sue pagine, i futuri cercatori, se mai ne fossero nati, le avrebbero raccolte a una a una.
Era calata la notte e si erano accese migliaia di fiammelle, come se il cimitero fosse stato invaso da un prodigioso sciame di lucciole, ciascuna a pulsare accanto a un assente, in vece sua. La luna, velata dai vapori della calura, spargeva un chiarore livido e attonito. Manara inseguiva la fuga delle croci verso il buio. Su tutte un nome, una data, come sulle costole dei libri. Troppe croci. Troppi libri, in quei cimiteri dei libri che sono le biblioteche. Il pietoso ufficio che egli ripeteva ogni giorno era quello di disseppellirne i resti: ma la carne, il sangue, il soffio vitale – si chiese – poteva mai ridarglielo? E i suoi, rilegati in marocchino rosso? I suoi libri, coi tagli dorati? Quando, ad opera di quale taumaturgo, sarebbero risorti?
Osservò con più attenzione la tomba di Anna Maria. I fiori erano freschi, come sempre. La siepe, curatissima. Non un filo d’erba era spettinato. Né un granello di ghiaia fuori posto. Non una foglia avvizzita, o un rametto, una pagliuzza, uno schizzo di fango, osavano insudiciare il sacrario di cui Dominici, che per il resto sguazzava nel disordine e nella sciatteria, era il tenero e severo custode.
Rabbiosamente, Manara strappò i fiori dal vaso e li gettò via. Le spine di una rosa offesa lo punsero. Allora si avventò sulla siepe, a calci, e la devastò. Contemplò, sgomento, lo scempio. « Che cosa sto facendo? » pensò, e si scostò dalla tomba. Intanto vedeva l’altro, la sua immagine nello specchio, afferrare la lapide e scuoterla furiosamente, scalzarla dalla terra, rovesciarla all’indietro. Lo vedeva brandire una pala e calarla sulla lastra, spezzandola in due.
Il colpo secco risuonò come una fucilata, rimbalzando di tomba in tomba fino ai più lontani colombari. I porticati moltiplicarono gli echi e li dispersero nei campi. Accorsero, allo sparo, la camicia rossa che combatté sul Volturno e il ventenne caduto per il luminoso labaro dell’unità d’Italia. Tremarono d’indignazione i baffi a manubrio del macchinista ferroviario morto per infortunio e del nostromo che dopo lunga e ardita navigazione lì aveva gettato l’ancora. La madre di famiglia di semplici e onesti costumi si strinse a colei che ebbe tutti gli splendori della vita. Rabbrividì la donna che la lunga vedovanza aveva dedicato all’amore e alle cure dei figli, e si avvolse nello scialle. Il meccanico fonditore che meritò onore di pubbliche cariche e l’ebanista, valente operoso onestissimo, levarono il pugno. Nelle orbite dell’industriale e commerciante, buono integro saggio, sfavillò per un istante la collera.
Le dolenti, in ginocchio, si tirarono il velo sul capo. Si fermò a mezz’aria la pioggia di fiori marmorei che i putti grassocci andavano spargendo sui loro protetti. Gli angeli abbassarono le ali. Manara era scosso da un tremito convulso. Lacrime copiose gli scendevano lungo le guance. Il volto del ritratto ovale, riverso sull’erba, continuava a sorridergli. Fu un gesto di pietà il fendente di pala che lo frantumò: come un colpo di grazia.
Il cimitero ripiombò nel silenzio. A oriente il cielo lampeggiava. Curvo, trascinando le gambe, Manara si allontanò dal misfatto. Si nascose. Chissà se il sole sarebbe sorto mai più.
« Ora Manara poteva adempiere l’ultima profezia: quella» continuò Bosio «per cui aveva fatto avverare le altre quattro. Come abbia attiratola Floris, e dove, ancora non sappiamo. Su questo si ostina a tacere. Siamo certi però che l’ha uccisa altrove e che ne ha abbandonato il corpo, già esanime, davanti al cancello di Dominici.
«Mi domandava del movente. Nemmeno di questo, come le dicevo, Manara vuol parlare. Una passione senile, pare. Per ammazzare il tempo, la povera Floris si dilettava di astrologia. Sa com’è. Della biblioteca, riferiscono i commessi, era frequentatrice piuttosto assidua. Scartabellava strani libri. Ricordano di averla vista entrare più di una volta nell’ufficio di Manara, dove si tratteneva a lungo. Non però negli ultimi tempi.
«Può darsi che la donna abbia civettato un po’ con lui. O, più verosimilmente, che egli abbia scambiato la cordialità per un incoraggiamento. Comunque sia andata, Manara le avrà fatto delle proposte. Che la bella Adele le abbia respinte, si può capire fin troppo bene. Ma è il modo, credo, che deve averlo offeso: colpito nel punto più intimo e vulnerabile. Sarà stato, forse, un moto di disgusto. O lo avrà deriso. O avrà scosso la sua piccola autorità di studioso di provincia.
« Un fatto si è poi risaputo: chela Floris, impietosamente, non faceva mistero delle goffe profferte di Manara. Così, in quell’uomo a detta di tutti ombroso e vendicativo, avrà cominciato a ribollire chissà quale mistura. Tra i libri e a casa, nelle notti insonni, avrà vagheggiato il giorno della rivincita, della vendetta. In un sogno eccitato gli sarà apparso il manoscritto cifrato, e l’idea maligna di sfruttare la profezia».
Il vescovo, a capo chino, annuiva:
«Perché Dominici? » chiese a sua volta.
«Perché si è servito proprio di lui, dice? Innanzitutto perché era il solo a cui potevano interessare i fatti di quella santa… ».
«La beata Isabetta ».
«La beata Isabetta, già. Poi perché, mente curiosa e spirito fragile qual è, era votato, diciamo così, a cadere in trappola. E c’era anche – mi è parso di capire – una vecchia ruggine. Come un conto in sospeso».
Bosio si tolse gli occhiali e si carezzò le palpebre. Aveva ancora davanti agli occhi la piccola faccia grinzosa di Manara.
«Chi è lei?» immaginava di chiedergli. «Chi è lei veramente?».
«Dipende» rispondeva il bibliotecario. « Cioè? ».
« Se sono il carnefice o la vittima ».
« Non vorrà farmi credere di essere stato l’inconsapevole strumento di una profezia ».
« AI diavolo la profezia! » imprecava Manara.
« Siamo tutti strumenti ».
«Di che cosa? Di una volontà superiore? Del destino? Del caso? Di chi?».
Il bibliotecario rideva sotto i baffi. «E che ne so? » rispondeva.