12 giugno 2012
Un grande esordio letterario, “L’avvocata delle vertigini” di Piero Meldini, pubblicato da Adelphi nel 1994 e ristampato nel 1999, vincitore del Premio Bagutta nel 1995. Nato a Rimini nel 1941, dov’è stato a lungo direttore della Biblioteca Gambalunghiana, Meldini ha scritto altri due importanti romanzi per Adelphi: nel 1996, “L’antidoto della malinconia” e nel 1999 “Lune”. E’ anche autore di un numero imprecisato di saggi.
Ne “L’avvocata delle vertigini” il tema è una profezia che si avvera e diventa delitto. Protagonista di questo noir apocalittico è Vincenzo Dominici, un agiografo, topo di biblioteca, che si sta interessando della vita della Beata Isabetta, copatrona della città. In biblioteca conosce Manara il bibliotecario, che gli permette di decrittare un antico manoscritto contenente un messaggio in codice dedicato alla Beata, che racconta dell’avverarsi di sette profezie apocalittiche.
Dominici si fa talmente coinvolgere da questa profezia che si reca dal giudice Bosio – dopo aver avvertito l’amico monsignor Berlinghieri – per riferirgli che sarebbe morta nei giorni seguenti una donna, e che l’assassino sarebbe stato lui stesso. Trovato il cadavere della donna, Dominici viene arrestato e rinchiuso in un pensionato per malati mentali. Dopo alcuni giorni emerge la verità. Il bibliotecario era riuscito a decifrare l’antico manoscritto prima di consegnarlo a Dominici e aveva calcolato il tempo che l’agiografo avrebbe impiegato per scoprirne il contenuto. Manara amava la moglie di Dominici e non poteva sopportarne il rifiuto; scaglia così la sua rabbia su Dominici uccidendo la povera donna che frequentava la biblioteca, poi trovata morta davanti al cancello di Dominici.
“Il romanzo si fa davvero curioso e intrigante dove riesce a mischiare, con finto rispetto e vera irriverenza, il giallo con la speculazione religiosa, la riflessione esistenziale con le bassezze del quotidiano, l’inevitabilità del delitto con l’attesa della morte. E tutto con un linguaggio nel complesso lucido, serrato e teso”, ha scritto il critico Angelo Guglielmi.
L’avvocata delle vertigini
Il tuono dissolse la faccia. Bosio si rimise gli occhiali. Cominciarono a cadere, picchiando sulla terra secca come una dattilografa sui tasti, grosse gocce di pioggia. Poi, coi lampi e i tuoni, arrivò lo scroscio. Si era fatto buio. Si scorgevano appena, dietro lo spesso muro d’acqua, le staffilate dei cipressi. La stanza s’impregnò dell’odore dei sacchi bagnati. Il vescovo ricordava – o era un miraggio della memoria? – interminabili mesi piovosi, quand’era bambino. E il fango che appesantiva le scarpe. E le mani raggrinzite e violacee.
«Immagino» disse il vescovo «che Dominici sia stato informato».
«Naturalmente, eccellenza. Una strana reazione, la sua. Non è insorto. Non ha manifestato stupore. Non ha fatto commenti. Come se la cosa non lo riguardasse. Fissava il pavimento e tremava. Ho paura che non sia più lui. Chissà se si riprenderà mai…».
Il vescovo osservava la pioggia e taceva.
Il giudice scuoteva la testa:
« Nessun arcano » concluse. « Era solo una mascherata. Una messa in scena barocca». E aveva l’aria delusa. «Stavamo per cascarci, ammettiamolo. Ci piaceva credere di aver assistito a un prodigio. Perché» domandò « è così difficile sottrarsi alla seduzione dell’inspiegabile? E com’è che lei, eccellenza, ha resistito al fascino del soprannaturale, proprio lei che è un uomo di fede? ».
Il vescovo alzò la faccia:
«La mia fede non deride la ragione» disse guardandolo negli occhi. « Il Signore in cui credo non spedisce messaggi in bottiglia. Non gioca a nascondino. Non tende trappole. Non manifesta nei deliri di una sibilla. Non semina i Suoi disegni tra le righe di un testo cifrato. Non lega il giorno dell’apocalisse ai latrati di una cagna e alle passioni di un vecchio. Non parla per enigmi».
Gli si incrinò la voce:
« Sant’Agostino… l’epilogo delle Confessioni, rammenta? » chiese. «”Non esci mai dal Tuo riposo, Tu che sei riposo a Te stesso”. Lo scritto segreto, la profezia, le cinque prove, la morte dell’innocente, l’annuncio della fine del mondo… No, giudice, tutto questo non mi ha turbato. Neppure per un momento mi sono sentito sfiorato dal mistero. Egli» mormorò «non romperà mai il Suo silenzio, poiché è silenzio a Se stesso».
Serpeggiando da un capo all’altro del cielo, guizzò in quell’istante la folgore. Per l’ultima volta.
Il temporale era passato e Bosio era andato via. Improvvise com’erano comparse, le nuvole sparirono. L’aria era tersa e cristallina e un alito di vento fresco diffondeva profumi di terre e giorni lontani.
Il vescovo si sentiva irrequieto e infreddolito. Gli pulsavano le tempie, mentre il silenzio gli ronzava dentro come un nido di vespe. Aprì il suo amato Agostino, che conosceva a memoria, cercando in una frase a caso la risposta che non vi aveva mai trovato. La risposta alla domanda che non avrebbe mai posto.
«Come se dovunque fosse mare, » leggeva «e da ogni parte, negli spazi infiniti, altro non fosse che mare, e al centro fosse un’immane spugna, e quella spugna fosse imbevuta in ogni suo alveolo di quel mare sconfinato: così, finite ma inzuppate d’infinito, mi figuravo le creature ».
Chiuse il libro e incrociò le braccia sulla scrivania rinnovando il gesto che aveva appreso sui banchi di scuola; e vi posò il capo. Si sentiva stanco e lontano. Gli si chiusero le palpebre.
Chiamava la gallina bianca, che si era persa. La cercava da cinque giorni. I fratelli ridevano, e quando passava correndo gli appioppavano uno scappellotto. Nella legnaia si udì un rumore soffocato. Smuoveva i ceppi e le fascine di sterpi, e si sbucciava le mani. Era imprigionata là dietro; allungava il collo smagrito, gli occhi fuori della testa, in preda al singhiozzo. Per terra erano allineate cinque uova in scala, l’ultima come una nocciola. Grande come una mosca, come una mosca gialla, il pulcino che ne sarebbe uscito avrebbe preso a svolazzare pigolando.
Nella stanza gelata si alzavano le voci dei fratelli in lite per quel poco che c’era da spartire. Quasi niente. Correvano dieci anni tra il penultimo e lui, frutto tardivo di una pianta ormai cinquantenne. Il padre, in un angolo, dormiva sulle sue sconfitte. I talenti che gli erano stati dati alla nascita, non aveva potuto spenderli. Quando suo padre gli parlava, sentiva l’eco dei vasti paesaggi che si aprivano dentro di lui, e quanto fosse fertile il terreno, e che abbondante raccolto avrebbero fruttato i semi che vi fossero stati gettati. Ma quel terreno nessuno lo aveva seminato. Erano cresciuti, là, pochi ciuffi di erba selvatica. Russava suoi fallimenti, come pane muffito.
Sua madre, quando tornò, non lo riconobbe.
Lo fissava e non lo vedeva. Parlava al vento con voce da bambina. Nei suoi occhi color nulla si specchiarono per due volte le quattro stagioni. In quello sguardo, troppo umano per essere umano, rimbombava la cieca protesta delle cellule, l’urlo assordante delle molecole. Risuonava ancora, come dentro una cattedrale, quando li chiuse.
Resurgent, pensò. Gli serrò la gola un dolore inconsolabile e vano per tutti quegli universi che si spegnevano, spargendo intorno i loro atomi, sterili spore. Per lo spreco d’infinito che ad ogni istante si consumava. Sentiva che dovunque si fossero riformati, sarebbero stati altri universi. Altre leggi li avrebbero governati. Ad altra musica avrebbero danzato.
La notte cadde, improvvisa come un calcio. Fuori, nel cielo spalancato, roteavano stelle rostrate. Il vescovo sedeva alla scrivania, nel buio. Lo angustiava un’inquietudine sorda che non riusciva o forse non osava svelarsi. Bosio, con gli occhialini tondi e l’immancabile giornale sottobraccio, gli rivolgeva un sorriso complice. Si ergeva accanto a lui Berlinghieri, come dal pulpito. Il profilo vigoroso di console romano si sfaceva nel mento, che l’ingordigia montanara aveva ripiegato quattro volte. I capelli infuriati, il tempo aveva scansato di imbiancarli. Respirava a pieni polmoni, il petto in fuori, aspettando di attaccare l’omelia. Lo vide e s’inchinò: «Eccellenza…» disse. Si affacciò, dietro di lui, Dominici, e gli lanciò un’occhiata sfuggente. Si aggrappava a Berlinghieri, per non cadere. Lontano, laggiù, Manara cercava in un volo di incantesimi la formula dell’immortalità, ma già si dissolveva. E con lui svaniva Domiici, tremando. E svaniva, levando l’indice, Berlinghieri. E Bosio, stracciando il giornale. Resurgent, pensò il vescovo, e mentiva.
Le ore scorrevano di traverso, col passo del granchio. Il vescovo sedeva alla scrivania, assillato da un tarlo, da un chiodo, che aveva la vacuità e l’ostinazione di un fischio. Alla luce bassa della lampada il popolo degli arazzi bisbigliava sulle terre remote oltre la quarta cateratta, oltre l’Etiopia, oltre Saba e Dedan, oltre Tarsis, ultima meta dei mercanti, oltre la regione di Magog, infitta nell’ombelico del mondo: là donde giunse, carico di catene, il sirrush, il drago di Babilonia, e dove galoppa il rehem, l’unicorno; là dove nelle paludi, nel folto dei canneti, Béhemot sbadiglia tra le foglie di loto, e sta in agguato il Leviatano, il cui dorso armato di scudi si fa beffe del ferro, che è paglia e legno fradicio: fervono i gorghi come pentole e l’abisso incanutisce.