9 luglio 2009
“Viaggio nella California messicana” è il sottotitolo dell’ultimo lavoro di Pino Cacucci, scrittore, traduttore e sceneggiatore, bolognese d’adozione, che negli anni Ottanta ha vissuto in Messico, paese che ha raccontato in molti libri celebri, da La polvere del Messico a Puerto Escondido, da Demasiado corazón a San Isidro Futból. Prendendo spunto dai suoi viaggi e vagabondaggi, Cacucci ne Le balene lo sanno racconta un’altra California: non quella di San Francisco, Hollywood o Malibu, ma la Baja California, quella amata dalle balene perché è l’unico posto al mondo in cui non vengono cacciate.
Le balene lo sanno
di Pino Cacucci
Prima puntata
Si chiamava Black Warrior. Era una nave baleniera varata nei cantieri di Duxbury, Massachusetts, nel 1825. Per oltre un quarto di secolo aveva massacrato cetacei nel Pacifico e nell’Oceano Indiano. Infine, nel 1858, era stata acquistata da un armatore di Honolulu e il nuovo equipaggio aveva fatto rotta verso sud, nella California ancora messicana, dopo la guerra d’invasione statunitense del ’47. Il capitano sapeva che nella smisurata baia tra il deserto del Vizcaíno a est e l’Isla Cedros a ovest si apriva una vasta laguna protetta dove migliaia di balene grigie convergevano dai mari artici per partorire e accoppiarsi. Il posto era conosciuto come Ojo de Liebre – “la sorgente della lepre”, nome dato dai nativi a una polla d’acqua dolce che sgorga all’estremità orientale – ed era stato “scoperto” solo un anno prima dal più famigerato cacciatore di balene di tutti i tempi, Charles Melville Scammon, che per uno scherzo del destino era parzialmente omonimo dell’autore di Moby Dick. Ancora oggi sulle carte nautiche statunitensi compare la dicitura “Scammon’s Lagoon”, mentre nei siti in lingua spagnola il signor Scammon compare quasi sempre con l’appellativo di “infame depredador de ballenas”. Nel giro di pochi anni, Scammon e i suoi seguaci uccisero talmente tante balene grigie da ridurne la popolazione a poche centinaia di individui, quando nei decenni precedenti se ne stimavano almeno ventimila. Agli inizi del XX secolo, la balena grigia venne dichiarata “estinta”. Per fortuna, si sbagliavano… E non avevano tenuto conto del ruolo di custode degli equilibri naturali che il Messico avrebbe assunto prima di ogni altro paese.
Quel 10 dicembre 1858 la mattanza risultò fin troppo facile: bastava colpire un neonato indifeso, e la madre avrebbe tentato di soccorrerlo, finendo a sua volta vittima degli arpioni. Il Black Warrior fece un massacro: le acque della Laguna Ojo de Liebre erano arrossate di sangue, a bordo gli uomini si affannavano a issare, squartare, separare il grasso e scioglierlo nei paioli trasformandolo in olio prezioso, caricare le stive di barili e gettare a mare le carcasse… Quei balenieri furono così avidi da decretare la fine della nave: per il peso eccessivo si incagliò in un basso fondale all’uscita dell’insenatura, lo scafo si squarciò e la prua si inabissò. Rimase con la poppa in alto, sulla quale i pescatori, per tanti anni, lessero quel nome: Black Warrior. Divenne un punto di riferimento e un segnale di pericolo, per chi transitava in mare varcando il 28° parallelo – che passa esattamente lì -, e qualcuno si prese la briga di tradurlo in spagnolo: “Guerrero Negro”. Intanto, le balene grigie erano scomparse dal Nord Atlantico e dalle coste del Giappone e della Corea, e quelle che popolavano i mari artici venivano decimate durante le annuali migrazioni nella Baja California. Finché, nel 1946, il Messico bandì la caccia dalle sue acque territoriali, permettendo un lento ma progressivo ripopolamento; arrivò, nel 1970, a dichiarare “santuari” le tre baie dove le balene grigie convergono dal Mare di Bering, le prime riserve protette al mondo per i cetacei. E quando in questa propaggine di deserto tra il Pacifico e il Mar di Cortés hanno cominciato a sfruttare le saline più grandi del pianeta, il villaggio che nacque venne chiamato Guerrero Negro. Oggi Guerrero Negro è una cittadina cresciuta lungo la via principale, che ha essenzialmente due ragioni per esistere: il sale esportato in tre continenti e l’afflusso di turisti, tra gennaio e marzo, per l’emozionante contatto con migliaia di balene grigie.
Siamo sul 28° parallelo, esattamente a metà della Baja California, la più lunga penisola al mondo. Quasi duemila chilometri di Carretera Federal México 1, che zigzaga tra le varie località da una costa all’altra e attraversa il deserto del Vizcaíno: cactus a perdita d’occhio, nastro d’asfalto dritto verso l’infinito, rare curve che spalancano all’improvviso scenari di baie incantate dalla sabbia candida. Poi, avvicinandosi a Guerrero Negro, sono rimasto colpito dai prati fioriti: il deserto sembra trasformarsi in giardino, l’umidità della notte fa miracoli e l’irrigazione consente di ammirare questi campi verdi, quasi un’oasi rispetto a poco prima. Più avanti, un secondo sbalzo da un eccesso all’altro: avventurarsi nelle saline è come calarsi in un paesaggio lunare, trecentottanta chilometri quadrati di bianco accecante, con le sterminate, “vasche” che a seconda del periodo assumono tonalità violacee o rosa cangiante, e mostri di acciaio arancione, i colossali darts, che trasportano cinquecento tonnellate di sale a ogni carico, un labirinto di piste larghe quanto quelle di un aeroporto internazionale dove senza una guida esperta ci si perderebbe nel nulla. “Prima accadeva spesso,” mi racconta Roberto de la Fuente, che ha lavorato nelle saline per mezza vita, “quando si permetteva ai visitatori di accedere senza restrizioni. Ogni tanto decollava il vecchio Dakota e sorvolava la zona in cerca dei dispersi. Adesso che la produzione ha raggiunto le ventimila tonnellate al giorno, sarebbe troppo pericoloso. Basti pensare che quelli là,” e indica i mezzi con pneumatici grandi dieci volte quelli di un Tir, “hanno bisogno di almeno trecento frenano, se si trovano davanti un ostacolo. È successo qualche tempo fa a un tecnico che era sceso dal pick-up per fare delle analisi di salinità. Al ritorno, ha trovato solo il tettuccio rasoterra, la camionetta aveva uno spessore di dieci centimetri… Come dite voi italiani? Sì, una pizza.”
Roberto adesso lavora per la Malarrímo, l’agenzia che organizza le visite a Guerrero Negro e alla Laguna Ojo de Liebre. Malarrímo è il nome di una spiaggia famosa, non per la balneazione ma per le correnti che sbattono sulla riva tutto ciò che raccolgono lungo le coste del Pacifico, passando per il Giappone e ridiscendendo il continente americano – le stesse rotte naturali sfruttate dai galeoni spagnoli per tornare ad Acapulco dalle Filippine. Il nome ha un significato difficile da tradurre: il verbo arrimar vuol dire “accostare”, un mal arrimo è in questo caso un malo modo di finire sulla riva; cioè un posto dove vieni sbattuto malgrado le tue intenzioni, per esempio dopo un naufragio. Sulla spiaggia si trova di tutto, compresi frammenti di satelliti, bersagli aerei e qualche siluro che costringe gli artificieri a verificare se siano ancora attivi o inerti. L’Hotel Malarrímo è una parafernalia di oggetti appesi alle pareti e ai soffitti, quasi un museo di reperti tra i quali non mancano persino pezzi d’ala e di fusoliera di velivoli militari di epoca “moderna”, ma anche arpioni ottocenteschi e, naturalmente, ossi di balena. E un’infinità di bottiglie con i messaggi più strampalati.
Non potevano mancare a Malarrímo le paperelle navigatrici. La loro epopea è iniziata il 10 gennaio 1992, quando un mercantile cinese in rotta da Hong Kong agli Stati Uniti è incappato in una tempesta e ha perso tre container, pieni di paperelle di plastica galleggianti, ben trentamila – di quelle che si mettono nella vasca per allietare il bagnetto ai bimbi. Una forma di inquinamento, visto che sono praticamente indistruttibili per decenni, se non secoli. Ma l’oceanografo Curtis Ebbesmeyer, da Seattle, ha deciso di lanciare un appello planetario per la segnalazione delle paperelle erranti, allo scopo di studiare le correnti. Una parte ha deviato verso sud, altre si sono spinte verso lo Stretto di Bering, alla velocità di un miglio al giorno, e ultimamente qualcuna è approdata persino sulle coste della Gran Bretagna. E da quando la ditta di Tacoma, che avrebbe dovuto riceverle, ha promesso cento dollari per ciascuna paperella recuperata, si è scatenata la gara dei collezionisti, in un delirio che oggi vede quotazioni fino a settecento curo su eBay. Quelle approdate a Malarrímo, sbiancate ed esili, si sono confuse con l’ammasso di altri giocattoli incrostati, corrosi, inservibili.
Mentre raggiungiamo il molo d’imbarco, le aquile pescatrici sfiorano la superficie della laguna e afferrano pesci tra gli artigli, bagliori di riflessi argentati nel cielo perennemente grigio di Guerrero Negro, dove però non piove quasi mai: ecco perché il sale si asciuga, in un microclima unico al mondo. Le aquile pescatrici sono solite costruire i nidi sulla cima dei pali della luce: da qualche anno si è deciso di dotarli di una sorta di sovrastruttura, un ripiano di legno più elevato, in modo che i rapaci non creino problemi alla rete elettrica e non rischino di morire folgorati. Ogni tanto scelgono i luoghi più strani, come la sommità di una pompa idrovora o la benna di un’escavatrice. “In tal caso,” assicura il veterano Roberto, “la macchina viene lasciata lì, in attesa che i piccoli crescano abbastanza da spiccare il volo. Qui l’aquila pescatrice è rispettata quanto le balene grigie: qualsiasi cosa facciano, noi ci adeguiamo. Anche perché le leggi sono molto severe, in Baja California, per quanto riguarda la natura.”
Da ogni nido spunta un aquilotto chiassoso, i genitori vigilano e rispondono ai richiami volteggiando maestosi… I gabbiani, invece, risultano essere gli unici volatili “pericolosi”: il tettuccio della camionetta di Roberto è cosparso di bozzi, a causa delle almejas catarinas, le grosse conchiglie che i gabbiani afferrano con le zampe e poi lasciano cadere da notevole altezza per romperle… Se ti arriva in testa un’almeja, come minimo è trauma cranico.
Il barcaiolo Javier ci accoglie a bordo, appena si stacca dal molo apre il gas e la lancia decolla, sparata verso il centro della Laguna Ojo de Liebre. Un’ora di navigazione, e Javier riduce al minimo i giri del potente fuoribordo. Il mare è color dell’acciaio, il freddo entra nelle ossa ed era inimmaginabile fino a poco fa, nel clima tropicale del 28° parallelo. A pochi metri dalla nostra barca, echeggia un possente sospiro, un soffio sordo, e lo spruzzo dello sfiatatoio ci bagna la faccia. Era vicinissima, e adesso la coda svetta brillante prima dell’immersione. Ancor più vicina, si erge un’immensa testa cosparsa di incrostazioni: se ne sta così, in verticale, per una decina di secondi, e ci osserva. Poi, con agilità sorprendente, salta di sbieco e si tuffa: quattordici metri di corpaccione affusolato per quaranta tonnellate di peso che sollevano una cascata di spruzzi.
Nel giro di mezz’ora, decine e decine di balene grigie ci attorniano giocose e festanti: è l’esperienza più emozionante che si possa provare in Baja California, lembo di terra che in quanto a sensazioni indimenticabili non è secondo a nessun altro. Perché non si tratta solo di “avvistarle”, le balene grigie, ma di scherzare con loro, toccarle, subirne la curiosità e persino le burle. Ce n’è una che si adagia sul fianco e con la pinna scaglia secchiate d’acqua sui turisti di un’altra barca, finché non li ha bagnati completamente: le urla di gioia e le risate confermano al gigante che ha raggiunto lo scopo. Le madri spingono i “piccoli” – pesano mezza tonnellata alla nascita – verso di noi perché, spiega Javier, li abituano alla presenza degli esseri umani, a prendere dimestichezza, e quando l’anno prossimo torneranno qui, “adolescenti”, avranno già una certa confidenza… Alcune si esibiscono addirittura in un gioco che, sulle prime, può inquietare non poco: si appoggiano con il dorso sotto la chiglia, sollevano la lancia e la trasportano velocemente in avanti per qualche centinaio di metri. E in tanti anni, mai nessun incidente, mai che una balena abbia rovesciato un’imbarcazione per “eccesso di. entusiasmo”.