16 luglio 2009
“Viaggio nella California messicana” è il sottotitolo dell’ultimo lavoro di Pino Cacucci, scrittore, traduttore e sceneggiatore, bolognese d’adozione, che negli anni Ottanta ha vissuto in Messico, paese che ha raccontato in molti libri celebri, da La polvere del Messico a Puerto Escondido, da Demasiado corazón a San Isidro Futból. Prendendo spunto dai suoi viaggi e vagabondaggi, Cacucci ne Le balene lo sanno racconta un’altra California: non quella di San Francisco, Hollywood o Malibu, ma la Baja California, quella amata dalle balene perché è l’unico posto al mondo in cui non vengono cacciate.
Le balene lo sanno
di Pino Cacucci
Seconda puntata
“Sanno quello che fanno, e lo fanno con delicatezza”, assicura l’esperto barcaiolo Javier, da nove anni amico per la pelle dei cetacei più affettuosi verso la specie che meno se lo merita.
Ma perché lo fanno? Perché dimostrano questo insopprimibile istinto, questo anelito all’amicizia degli esseri umani, arrivando al punto di mostrare loro – con orgoglio, si direbbe – i propri figli, tenendoli sollevati sulla superficie e avvicinandoli alle barche, e quelli, al pari di gattoni giocherelloni, che si lasciano accarezzare e persino baciare sul muso dalle turiste più commosse della comitiva… Dopo essere state massacrate per secoli – e in parte ancora oggi lo sono (giapponesi e, in misura minore, norvegesi e islandesi, più i russi che nessuno sa mai cosa combinino) -, le balene sembrano sapere che qui, in Messico, da oltre mezzo secolo non hanno più niente da temere. Studiosi della materia sostengono che i più grandi mammiferi del pianeta provano un’attrazione istintiva verso quegli altri mammiferi che sono rimasti a vivere sulla crosta terrestre, mentre loro hanno fatto ritorno al mare da cui tutto nacque. Chissà. A me piace pensare che siano così intelligenti da comprendere le differenze: sulle coste della Baja California ci stanno gli umani amichevoli. E loro lo sanno, eccome se lo sanno… E comunque, queste sono le balene grigie, Eschrichtius robustus, che si distinguono proprio per tali comportamenti giocosi; le altre specie diffidano e non socializzano, tranne in casi sporadici. Sono anche i mammiferi che compiono le più lunghe migrazioni, ventimila chilometri
fra andata e ritorno dal Mare di Bering fino alla Baja California, una vita da viaggiatori scandita dal numero perfetto, il tre: i mesi estivi nelle acque artiche a cibarsi per accumulare grasso ed energie, i tre mesi successivi a nuotare, quindi altri tre per amoreggiare nelle tre zone della Baja che sono i loro santuari – Ojo de Liebre, San Ignacio e Bahía Magdalena -, e quelle rimaste incinte l’anno precedente a partorire e allattare. Infine, tre mesi di viaggio di ritorno verso i ghiacci del Nord, quei ghiacci che fino a poco tempo fa definivamo eterni e adesso… quien sabe.
Sappiamo così poco di loro: che comunicano le une con le altre anche a immense distanze – ma non capiamo bene come diamine facciano a propagare i suoni -, che si orientano con il sole e con il campo magnetico terrestre, che dispongono di un biosonar per i rilevamenti dei fondali, che sono socievoli e gregarie, cioè vivono in comunità, e che quando una viene arpionata, tentano di aiutarla, esponendosi ai colpi. Inoltre, l’atteggiamento che stiamo vedendo qui, nella Laguna Ojo de Liebre, così incredibilmente amichevole, non è una costante invariabile: una madre che vede uccidere il proprio figlio si lancia all’attacco, e nel XIX secolo vi furono diversi casi di brigantini affondati dalle testate di una balena grigia accecata dal dolore, che si suicidava trascinando a fondo gli assassini. Ecco perché venne soprannominata evil fish, il “pesce diavolo”, dai balenieri anglofoni, che peraltro confondevano il più grande dei mammiferi con un “pesce”. Le balene tra loro non hanno gerarchie, ma una sorta di mutuo soccorso e ruoli difensivi: per esempio, all’imboccatura della laguna che dà sull’oceano aperto si schierano a turno assieme ai giovani desiderosi di imparare i maschi più forti, i “guerrieri” veterani, e impediscono a orche e squali di entrare e sbranare i piccoli. Organizzano una sorta di ronda e si avvicendano nella guardia, mentre i neonati succhiano una quarantina di litri a poppata, tranquilli e protetti.
Se l’amichevole balena grigia può diventare aggressiva quando vede uccidere le creature amate, resta comunque una delle più innocue per l’uomo; ben diverso è il capodoglio, più grande e possente, nonché predatore e sempre pronto a vender cara la pelle. Si deve al capodoglio la leggenda che diede origine a Moby Dick, la “balena bianca” del romanzo di Herman Melville che inizia con quell’ormai mitico Call me Ishmael: “Un nobile capodoglio nella piena maestà della sua possenza…”. Era realmente esistito, quel capodoglio: i balenieri lo avevano chiamato Mocha Dick, perché il primo combattimento lo aveva ingaggiato davanti all’Isla Mocha, nell’arcipelago di Chiloé, al largo del Cile, nel 1810. Era più chiaro dei suoi simili, di un grigio argenteo, e già allora una lunga cicatrice bianca gli attraversava la testa. Ventidue metri di lunghezza, fiero e indomito, era scampato ai ramponieri sferrando testate contro le scialuppe e rovesciandole. Poi, per trent’anni, chissà cosa fece e quali imprese affrontò.
La memoria marinara lo fa riaffiorare nel 1840: una baleniera inglese lo avvistò nel Pacifico australe, il gabbiere lanciò l’usuale grido – “Soffia, laggiù, soffia!” – a indicare lo spruzzo di vapore degli sfiatatoi, vennero calate in mare le due scialuppe dei cacciatori, voga, voga, e più si avvicinavano, più cresceva l’inquietudine. Mocha Dick, inconfondibile, il più grande capodoglio che avessero mai visto, sembrava calcolare le distanze, li riduceva allo stremo nell’inseguimento, evitava gli arpioni ogni volta per pochi metri: infine, si immerse di colpo. Per poi sferrare una poderosa testata dal basso. La prima scialuppa, sventrata, colò a picco. I marinai vennero proiettati in aria e ricaddero in acqua. Mentre la seconda imbarcazione soccorreva i naufraghi, Mocha Dick tornò all’attacco, e stavolta spalancò l’enorme bocca e con le file di denti grossi come zanne frantumò la scialuppa.
Tutto questo non fa parte della leggenda, non era solo il frutto dei lunghi racconti durante il tedio dell’attesa a bordo, nelle interminabili traversate: basti pensare che nel
xix secolo, e ancor più in quelli addietro, i capodogli che pesavano fino a sessantacinque tonnellate uccidevano ogni anno decine di balenieri, e innumerevoli erano i mutilati che tornavano in porto per finire i giorni a narrare mille e mille volte il proprio dramma nelle taverne, circondati dall’indifferenza dei bevitori.
La testa sfregiata di Mocha Dick sarebbe ricomparsa alla vista dei balenieri un mese dopo. I ramponieri avevano appena ucciso una femmina di capodoglio, la stavano trainando verso la nave per issarla a bordo e squartarla, quarìdo Mocha Dick si avventò su di loro: distrutta la scialuppa si avvicinò alla balena morta, e, davanti agli occhi attoniti dell’equipaggio, lasciò perdere i superstiti e si mise a spingere la carcassa senza vita, all’inizio illudendosi forse di salvare quella che probabilmente era stata la sua compagna. Poi, rassegnato, la portò lontano solo per impedire che la prendessero loro, i “nemici”.
Gli avvistamenti successivi di Mocha Dick si confondono ormai nella leggenda, di certo si sa che la sua vita finì nel 1859. Più che la vecchiaia e la stanchezza accumulata, lo tradì la solidale generosità verso i propri simili: ancora una volta, si avventò contro una baleniera per salvare altre balene arpionate. Qui le cronache sono discordi: secondo alcuni testi, si sarebbe trattato di una nave svedese, mentre lo scrittore cileno Luis Sepúlveda sostiene che era una baleniera basca al comando del capitano Ignacio Etchavarría; e Sepúlveda non solo conosce bene la storia di quel capodoglio, ma fu anche caro amico del grande narratore Francisco Coloane, nativo dell’Archipelago di Chiloé – a cui apparteneva Isla Mocha – e cantore delle sue innumerevoli storie. Il vecchio capodoglio non smentì la propria fama: arpionato a un polmone, cominciò a perdere sangue a fiotti, finché, stremato, rimase immobile sulla superficie dell’oceano. I ramponieri si avvicinarono per recuperarlo, pronti a finirlo assestandogli un colpo letale. Ma Mocha Dick, come in un romanzo d’avventure, stava solo fingendo di essere morto: quando la prima imbarcazione fu a portata di coda, sferrò un colpo che la scaraventò in aria, uccidendo altri marinai prima di soccombere sotto gli arpioni lanciati dalle altre scialuppe intorno.
La nave che lo uccise annunciò di aver “vendicato” le vittime di Mocha Dick. Gli squartatori di bordo, oltre a restare stupefatti di fronte alle innumerevoli cicatrici, estrassero dalle sue carni ben diciannove punte di vecchi arpioni. Il capodoglio indomito che non fuggiva ma contrattaccava, non poteva sapere che otto anni prima un grande scrittore si era ispirato a lui per scrivere un romanzo memorabile. E chissà se Melville seppe mai che il vero Moby Dick era caduto lottando, senza capire il perché dell’odio ma reagendo d’istinto alle aggressioni: in quel periodo, lo scrittore newyorkese si dedicava alle poesie e ai ricordi di viaggio, alle riflessioni shakespeariane su apparenza e realtà, e intanto si rifugiava nell’anonimato per sfuggire alla fama che non amava. Solo cinque anni dopo, nel 1864, l’epopea dei balenieri che rischiavano la vita e delle balene che vendevano cara la pelle sarebbe terminata di colpo; il capitano norvegese Svend Foyn, che peraltro era avvezzo a massacrare foche e non cetacei, inventò l’arpione esplosivo: un cannone con gittata di cinquanta metri sparava nel corpo della vittima l’ordigno con cinque uncini che si aprivano all’impatto, rompendo una fiala di acido solforico che innescava una carica di polvere. L’esplosione all’interno delle carni uccideva la balena all’istante… o quasi. L’inseguimento, allora, era affidato ai nuovi bastimenti a vapore, ben più veloci dei velieri. Oggi, uccidere balene è come assassinare bambini in un asilo: radar, sistemi di puntamento al laser, motori a turbina, navi officina per compiere lo scempio a bordo, elicotteri per l’avvistamento che decollano dalla piazzola sul ponte di coperta… strumenti moderni per un crimine antico. E senza più la giustificazione del bisogno, ma solo per il capriccio di pochi.
“Grazie” a un arpione esplosivo, proprio mentre sto scrivendo è stata diffusa una notizia che rimette in discussione l’ipotesi sull’età media delle balene – più o meno ottant’anni, al massimo cento, a seconda delle specie: un vecchio esemplare ucciso dagli eschimesi presentava nelle carni un arpione incistato, la cui carica, di fabbricazione statunitense e in produzione tra il 1870 e il 1880, a suo tempo non era esplosa. Dunque, la povera balena doveva avere almeno centoquarant’anni, probabilmente di più, se si considera che all’epoca in cui le avevano piantato quell’arpione doveva essere già adulta. Quanto agli eschimesi che hanno messo fine alla lunga esistenza di questo grande vecchio degli oceani, le cui esperienze costituivano un patrimonio straordinario, si dedicano a tale “passatempo” più per tradizione che per reale necessità. Ripenso alle comunità indigene del Chiapas, che sostengono una verità illuminante: ci sono tradizioni buone, che vanno salvaguardate, e tradizioni perniciose, di cui dobbiamo liberarci. Ecco, gli eschimesi che oggi usano le motoslitte e l’ínquínantíssímo antigelo nei radiatori dei gipponi, che hanno le radio e i televisori e persino i frigoriferi, quand’è che si decidono a piantarla con le “tradizioni” di cui dovrebbero vergognarsi? In fin dei conti, uccidono una balena ogni tanto solo per organizzare una sorta di festa rituale, dove mangiano un pezzetto di carne e buttano in mare tutto il resto.
Tornando ai velieri di metà Ottocento, il Pequod del capitano Achab era del tutto simile al Black Warrior rimasto incagliato davanti alla Laguna Ojo de Liebre. Tre alberi a vela aurica, una stiva capiente per contenere un gran numero di barili d’olio, pesante e lento, ma molto solido per resistere alle tempeste e dotato di un rinforzo sulla chiglia per rompere croste di ghiaccio appena formatesi, anche se tale eventualità rappresentava l’incubo dei balenieri: rimanere intrappolati nel ghiaccio significava la morte certa. Nel caso del Black Warrior e del Pequod, lo scafo era più leggero – e quindi veloce – perché, a differenza degli inglesi, gli statunitensi della flotta baleniera di stanza nei porti di Nantucket e New Bedford raramente si spingevano a caccia nell’Antartico.
Rientriamo nel primo pomeriggio: la navigazione nella Laguna Ojo de Liebre è concessa solo dalle otto alle quindici – per il resto, divieto assoluto di disturbare le balene. Costeggiamo l’immensa isola di sabbia, Isla Arena, appunto, fatta di dune e disabitata ma popolata da uccelli delle più svariate specie; un branco di leoni marini si accalca su una grossa boa, i maschi emettono ruggiti e spalancano le fauci: tutta scena per impressionare il loro harem.
La notte, a Guerrero Negro – che deve il nome a quel Black Warrior e che ha sostituito le mattanze con il turismo di quanti amano Madre Natura -, il vento ulula e mugghia, sollevando nubi di sabbia e sale. I1 nostro hotel si trova esattamente sul 28° parallelo, che segna anche la linea di confine tra due stati della Federazione messicana, la Baja California Sur e la Baja Norte. Naturalmente non si tratta di varcare una frontiera, però c’è una sorta di casello autostradale, una garitta che serve soprattutto a controllare le merci dei lunghi autoarticolati provenienti dal Nord: la Baja Sur vanta orgogliosamente l’immunità da infestazioni delle piante diffuse altrove, e la difende con cura. Per un capriccio della geografia e della Carretera Federai 1, l’hotel si trova nella Baja Sur ma per varcare l’ingresso bisogna percorrere un centinaio di metri nella Baja Norte. La nostra Dodge Durango varca questo “confine” due o tre volte al giorno, e visto che dall’alba al tramonto il “doganiere” cambia, a ogni passaggio mi viene chiesto dove vado e da dove vengo e cosa trasporto. Dopo un po’, mi sembra di rivivere quella gag di Benigni e Troisi nel film Non ci resta che piangere: per fortuna nessuno mi chiede “un fiorino” e neppure un peso…