“Viaggio nella California messicana” è il sottotitolo dell’ultimo lavoro di Pino Cacucci, scrittore, traduttore e sceneggiatore, bolognese d’adozione, che negli anni Ottanta ha vissuto in Messico, paese che ha raccontato in molti libri celebri, da La polvere del Messico a Puerto Escondido, da Demasiado corazón a San Isidro Futból. Prendendo spunto dai suoi viaggi e vagabondaggi, Cacucci ne Le balene lo sanno racconta un’altra California: non quella di San Francisco, Hollywood o Malibu, ma la Baja California, quella amata dalle balene perché è l’unico posto al mondo in cui non vengono cacciate.
Le balene lo sanno
di Pino Cacucci
Sulle montagne della Sierra La Gíganta
Lasciamo Puerto San Carlos per tornare a Ciudad Constitución, così la Dodge Durango può inghiottire galloni di gasolina e noi un caffè da mezzo litro a testa, che non si raffredda neppure dopo mezz’ora: piombo fuso. La México 1 punta a nord, fino a Ciudad Insurgentes, anche questa paciosamente desolata, e poi vira con decisione a est, inerpicandosi sui contrafforti della Sierra La Giganta: le forme di alcune montagne richiamano quelle di una donna gigantesca e hanno dato il nome alla catena che fa da spina dorsale alla Baja Sur, con vette da milleottocento metri. Zopilotes che volteggiano alti: gli avvoltoi messicani sono formidabili volatori, visti da quaggiù hanno un aspetto persino hermoso, con quelle grandi ali dalle punte aperte come dita delle mani. Peccato che ogni tanto qualche carcassa di vacca ai lati della strada – ecco a cosa servono quegli enormi respingenti sui musi dei camion – mostri da vicino come siano davvero gli zopilotes: brutti da far ribrezzo, una testa pelata con la pelle grigia e unta di umori cadaverici, saltellano goffi sull’asfalto senza decidersi a spiccare il volo. Ci fissano infastiditi con quegli occhietti rossi da creature spiritate, e le maestose ali viste nel cielo azzurro ora sono pesanti fardelli che si trascinano appresso. Certo, sono utilissimi e insostituibili: senza loro, che spolpano in poche ore tutte le vittime bovine, equine, ovine – più una miriade di malcapitate creature minori – mietute ogni notte sulla carretera, altro che profumo di fiori di cactus ci sarebbe adesso in quest’aria di montagna che rinfranca i polmoni. Superiamo la Estación Microondas Agua Amarga, con i suoi ripetitori che captano e irradiano comunicazioni dal continente, e dopo qualche ora di curve iniziamo la discesa verso il Mar di Cortés. La costa comincia a Ensenada Bianca, da dove si scorgono la piccola Isla Monserrat e, alle sue spalle, la Santa Catalina; poi, oltre una miriade di isolotti e la piccola Isla Danzante, si erge la vasta Isla Carmen. Ecco cosa intendeva John Steinbeck quando scriveva di “effetto miraggio”: è difficile capire dove finisca la penisola della Baja e dove sorga un’isola o un isolotto, è un continuo sovrapporsi di propaggini e pezzi di deserto staccatisi dalla costa.
“Mentre si sta superando un promontorio, questo si stacca all’improvviso e diventa un’isola, con l’acqua che sembra protendersi verso l’interno per ridurlo poi a una roccia dalla forma di fungo, e quindi lo libera completamente dalla terra, tanto che alla fine risulta un’isola sospesa sul mare. Perfino da una distanza molto ravvicinata, non si riesce a concepire la reale forma della terraferma. Isole, che secondo la carta sono lontanissime, risultano perfettamente visibili. Altre che dovrebbero essere vicine, non le vedi finché non erompono di colpo dal miraggio. Tutta la terraferma è chimerica e mutevole.” Steinbeck percorse le coste della Baja nel 1940 in barca assieme all’amico biologo Ed Ricketts, per poi scrivere Diario di bordo dal Mare di Cortés, dove racconta di una singolare spedizione in cerca di crostacei e piccoli molluschi; il libro è dedicato a Ricketts, che morì pochi anni dopo, e inizia proprio con la sua auto travolta dal Del Monte Express a un passaggio a livello poco distante da vicolo Cannery.
Un enorme cartello indica un posto meritevole di minori attenzioni: Puerto Escondido. Non quello molto più a sud, sulla costa dello stato di Oaxaca, che ben conosco: questo Puerto Escondido, più che nascosto, è dimenticato. Una baia incantevole, tante roulotte e camper, case sparse su una rete di strade che sembrano portare da nessuna parte, i ruderi di un complesso turistico abortito – e mi verrebbe da dire “per fortuna” -, segno che le mire di investitori e politici locali sono naufragate nella silente paciosità di questo luogo immoto. Il benzinaio ci racconta che l’edificio in abbandono, con quelle finestre simili a orbite vuote di tanti teschi accatastati, dovrebbe essere finalmente abbattuto. Il nuovo porticciolo turistico, completato un paio di anni fa, è semideserto, ma c’è chi spera possa diventare, in un futuro radioso, meta per vacanzieri in cerca di quiete. Intanto, i terreni intorno sono suddivisi in lotti, chissà chi mai se li comprerà.
I pellicani sostano in fila sulle ringhiere del molo, quasi si credessero piccioni urbani, e i rari villeggianti sembrano felici del mancato sviluppo: si godono la quiete e deambulano senza la benché minima traccia di fretta. L’acqua del golfo è straordinariamente calma, il sole sta tramontando e guardo le poche barche all’àncora che si apprestano a trascorrere un’altra notte di bonaccia. E scrive Steinbeck: “Le notti all’àncora nel golfo sono calme e strane. L’acqua è levigata, quasi solida, e la rugiada è così forte che il ponte ne resta imbevuto. E le piccole onde graffiano le spiagge fatte di conchiglie, producendo un suono tintinnante, e tutto intorno nell’oscurità i pesci saltano. A volte una manta gigante s’innalza sulla superficie e ricade con un tonfo fragoroso. Un banco di pesci minuscoli sibila sotto il pelo dell’acqua e quando si libra produce un impercettibile fruscio. E non ci sono né percezione, né odore, né vibrazioni della gente del golfo. Così, nonostante il rumore delle onde e dei pesci, si prova una sensazione di quiete mortale”.
Lasciando Puerto Escondido 2, penso ai pellicani che lo popolano, e alle cupe previsioni di esperti biologi che li vorrebbero destinati all’estinzione.
Superato ormai il mezzo secolo di vita, ogni tanto mi chiedo se sia saggio continuare a leggere i testi di quei pochi saggi rimasti sulla Terra che si affannano a lanciare allarmi sulla sua sistematica distruzione, o se sarebbe più salutare cominciare a strafregarmene per vivere spensieratamente quel che mi resta da vivere…
Per esempio, i pellicani: William Weber Johnson, ex direttore di “Time-Life” e profondo conoscitore della biodiversità bajacaliforniana, già nel 1978 scrisse che erano inesorabilmente condannati. Non perché minacciati direttamente dall’uomo – nessuno spara ai pellicani -, ma per la micidiale “catena alimentare”: gli agricoltori abusano di pesticidi che a tonnellate scorrono in canali e fiumi e quindi finiscono, prima o poi, in mare. E altrettanto fanno le industrie con sostanze tossiche e metalli pesanti, in particolare il mercurio. Dunque, i pellicani, al pari di altre specie, si cibano di pesci imbottiti di pesticidi e altre nequizie, e da diversi anni le loro uova hanno il guscio sempre più sottile, tanto che le covate hanno spesso un esito nefasto per mamma pellicana.
Rincara la dose il cetologo Roger Payne, che al termine di un rabbrividente elenco di sostanze “organoalogene” presenti in mare in quantità sempre più massicce – molecole che contengono atomi di fluoro, cloro, bromo o iodio, derivanti da pesticidi, diserbanti, insetticidi eccetera eccetera, con apporto di diossina, esaclorobenzene, bifenili policlorurati e polibromurati, e tutti i componenti della fetente famiglia degli idrocarburi poliaromatici – parla delle leggiadre e pressoché invisibili diatomee, il vegetale più piccolo che esista: in pratica, è una cellula racchiusa da un microscopico scheletro siliceo, che assorbe la luce solare e galleggia grazie a una infinitesimale gocciolina d’olio. Le diatomee sono piccolissime, ma tante: costituiscono la più grande biomassa vegetale sul pianeta. Bene, cioè malissimo: attraverso quella dannata gocciolina di sostanza oleosa, che ci vuole il microscopio per vederla, le diatomee assorbono tutte le molecole di nefandezze sopra elencate, immagazzinandole perché non sono in grado di scinderle e digerirle. Di diatomee si nutrono tanti organismi, via via sempre meno minuscoli, arrivando ai pesci, in una lunga serie di scalini dimensionali, fino ai cetacei, che nella scala alimentare assorbono qualcosa come venticinque milioni di volte l’inquinamento delle acque in cui vivono. Al termine del resoconto mortifero, Roger Payne riporta che nel 1987, nell’Atlantico settentrionale, si è registrata la scomparsa di almeno la metà dell’intera popolazione di delfini e di un dieci per cento delle megattere: attraverso le autopsie dei corpi recuperati, i ricercatori hanno stabilito che i mammiferi più evoluti del pianeta erano deceduti per depressione del sistema immunitario a causa di sostanze inquinanti.
Mi faccio del male, con simili letture. Anche perché, se in preda a un istinto primordiale pianterei volentieri un arpione nel ventre di un odierno baleniere solo per chiedergli “dimmi, cosa si prova?”, ora dovrei per coerenza andare a spezzare gambe e braccia a tutti gli agricoltori che usano pesticidi, per non parlare degli industriali che riversano nei fiumi le loro schifezze, che se volessimo soltanto ghigliottinarli non basterebbe l’acciaio del mondo per farne lame… insomma, non si può. Dunque, impotenza assoluta.
E a proposito di agricoltura: ho letto di recente, sul quotidiano messicano “La Jornada”, uno studio scientifico che ci annuncia, niente meno, l’imminente estinzione delle banane. Sì, le banane che troviamo a tonnellate ormai ovunque. È una lunga storia, e pare si sia arrivati all’epilogo.
Fino a un secolo e mezzo fa, le banane proliferavano ai Tropici in varietà innumerevoli: ce n’erano di tutti i sapori, le dimensioni e le sfumature di colore. Poi è arrivata la United Fruit – la attuale Chiquita – e ha “estrapolato” dalle selve centroamericane una sola varietà, quella denominata Gros Michael, per i grossisti, facendola diventare per un paio di decenni la banana, visto che erano tutte uguali e di eguale sapore: gialla, cremosa, dolce. Come spiega Dan Koeppel nel suo Banana: the fate of the fruit that changed the world, la multinazionale ha imposto a paesi “deboli” la monocoltura, estirpando le altre varietà.
E quando le piantagioni intensive hanno cominciato a essere attaccate dai parassiti, via con i pesticidi irrorati a tutto spiano da velivoli, anche mentre nelle piantagioni lavoravano i raccoglitori, pace all’anima loro e dei familiari tutti. Nel 1911 il magnate bananiero Samuel Zemuray decise di trasformare l’intero Honduras in una sua piantagione privata, ricorrendo ai servigi di un personaggio da film gangster: Guy Maloney detto Gunmachíne, cioè “mitra”, che organizzò un esercito privato dedito a sterminare eventuali sindacalisti o ecologisti della prima ora. Da lì deriva il modo di dire ancora in voga “Repubblica delle banane”. Stessa sorte toccò nel 1954 alla democrazia guatemalteca, dove il presidente Jacobo Arbenz, liberamente eletto, dopo aver avviato la riforma agraria venne rovesciato da un colpo di stato ordito dalla United Fruit con il fattivo appoggio di Eisenhower – dettaglio curioso: allora a capo della Cia c’era un ex dirigente della United Fruit… quando si dice i casi della vita – e la dittatura militare che si instaurò da allora sterminò almeno duecentomila indigeni maya. C’è da auspicare che queste stramaledette banane si estinguano davvero, vista la scia di sangue che si portano dietro… Pare non manchi molto.
Or dunque: la biodiversità permette alle specie di sviluppare difese quando una sola viene attaccata, le monocolture no. Negli anni sessanta, la specie Gros Michael è stata distrutta da un fungo.
Al suo posto, nel frattempo, la multinazionale, sempre quella, ha creato la varietà Cavendish – dal nome profetico del corsaro -, un po’ più piccola, meno cremosa, ma pazienza. Poi, negli anni ottanta, anche la Cavendish si è ammalata, infrangendo il mito di immunità a suo tempo sbandierato dai soliti Frankenstein dell’agroindustria. Solo in Africa si registra un sessanta per cento di piante morte. E si prospetta una progressiva contaminazione in America. Gli “scienziati” al soldo delle corporation stanno lavorando alla varietà Goldfinger – altro delinquente da film: almeno, sono coerenti con i nomi -, che dovrebbe risultare più resistente. Peccato che íl frutto sia duro e aspro: la banana da mettere a fette nel gintonic, bella scoperta, complimenti. Johann Hari, di “The Independent”, nominato giornalista dell’anno da Amnesty International, nella condanna all’estinzione della banana vede una parabola dei nostri tempi: “Per almeno un secolo, un pugno di corporation si è impossessato di un frutto splendido e nutriente, e per spremere fino all’ultima goccia di profitti ha distrutto democrazie, ha bruciato foreste e ora ha finito per uccidere la frutta stessa. E abbiamo forse imparato qualcosa?”.
No, non impariamo niente, ci vorrebbero le balene al governo del mondo, loro saprebbero come fare. Guardo i pellicani, che comunque abbondano malgrado le uova dal guscio sottile, mangio una banana messicana di quelle piccolissime, ancora sfuggite alla logica delle monocolture, mi sembra persino di scorgere un soffio di balena, laggiù, tra un’isola e l’orizzonte mutevole, e penso che sono proprio contento del mezzo secolo e più trascorso fin qui, e non mi dispiacerà affatto non esserci quando l’imbecillità umana avrà estinto pellicani, banane e balene. E un pensiero rincuorante, niente affatto angosciante. Mi rimetto in marcia.
della tappa odierna. Avvicinandoci alla periteria, sul lato destro scorrono sterminati campi da golf: Loreto Bay si chiama l’insediamento di villette in riva al mare. Giustamente ha il nome inglese: con il Messico non c’entra una mazza (da golf, naturalmente).
E finalmente, Loreto, “capitale delle due Californie”, come si legge sulla facciata del municipio in caratteri tipicamente coloniali. Fu capitale fino al 1828, quando un uragano la devastò e, intanto, le mire secessioniste dell’Alta California da un lato, e la propensione dei poteri locali a insediarsi a La Paz dall’altro, ne avrebbero decretato l’inesorabile declino. Prima missione gesuita nella Baja, la chiesa di Nuestra Senora de Loreto conserva la malia del tempo che si è fermato, anche se sul portone un cartello ci riporta ai guasti del “progresso”: DIO TI CHIAMA, MA NON USA MAI IL TELEFONO: SPEGNI IL CELLULARE PRIMA DI ENTRARE.