16 dicembre 2008
Oggigiorno, quando si parla di emigrati, si pensa a coloro che sono partiti dalla nostra regione a causa della fame e della miseria. Costretti a emigrare da zone montane, come quelle attorno a Parma e Piacenza, gli espatriati hanno dovuto lavorare sodo nel paese di accoglienza, spesso per pochi soldi.
In questo servizio, però, vi racconterò di un nuovo tipo di emigrazione: il viaggio che portò mio padre Emilio, nato a Cotignola in provincia di Ravenna, a Bruxelles, in Belgio.
Il viaggio di mio padre comincia alla metà degli anni ’70. Emilio Dalmonte aveva poco meno di vent’anni, ed era arrivato ad un bivio della sua strada: poteva restare a casa, ed aiutare il padre commerciante, o proseguire gli studi all’università. Un giorno, mentre leggeva un giornale, notò per caso un inserto che parlava di una scuola interpreti a Trieste. Interessato, ebbe il coraggio di seguire il suo fiuto e si iscrisse al corso dell’anno seguente.
La sua esperienza a Trieste fu gremita di episodi comici: un giorno, dovendo andare a lezione, Emilio uscì di casa sua, ma non riuscì a trovare la sua macchina. Ci mise due ore a capire che i suoi amici, in pure stile Christò, gliela avevano impacchettata con dei vecchi giornali. Per non parlare dei professori: si racconta che, dopo aver ascoltato una traduzione abbastanza scarsa di un suo studente, un professore di inglese gli abbia chiesto: “Ma che tipo di fumetti leggi?”.
Il corso si rivelò essere un successo: dopo tre anni il giovane Emilio aveva ottenuto una laurea breve in Inglese ed Olandese, ed aveva anche trovato degli amici, persone che si sarebbe tenute care per tutta la vita.
Con questa laurea, mio padre decise di emigrare, sapendo che le “sue” lingue erano molto ricercate, soprattutto nel mondo degli affari. Arrivato in Belgio, partecipò l’anno seguente al concorso per interpreti, ed ottenne un posto fisso nella Commissione Europea nell’Aprile del 1980. Oggi, 28 anni dopo, mio padre vive e lavora ancora in Belgio.
Cosa rende questo viaggio così interessante è il fatto che mio padre abbia vissuto un’esperienza in netto contrasto con quella dei suoi connazionali, per una serie di motivi che adesso analizzeremo.
Il primo fra questi motivi è il fatto che mio padre non fu costretto a spostarsi. A quei tempi, in Romagna, la fame e la miseria erano fenomeni inesistenti. Si tratta quindi di un’emigrazione anomala, non obbligata, spinta dall’immaginazione giovanile.
In secondo luogo, l’esperienza lavorativa di funzionario europeo ha garantito a mio padre , fin dall’inizio, un tenore di vita abbastanza agiato, differenziandolo quindi da tanti connazionali che in passato, spinti dal bisogno, hanno accettato lavori pesanti, pericolosi e mal retribuiti.
Il terzo punto è essenziale: va notato che Emilio non abbia mai veramente dovuto affrontare il problema dell’integrazione con la popolazione locale belga. Lavorando per l’Unione Europea, si è trovato a far parte di una comunità a sé stante, in un certo senso separata dagli abitanti del luogo, con cui non ha mai avuto veramente bisogno di socializzare.
Importante, in questo contesto, è la questione del lavoro: è chiaro che le persone con cui si lavora sono spesso anche le persone che si frequentano socialmente. Sicché mio padre, lavorando con europei, si è creato una rete di amici e conoscenze provenienti da vari paesi.
Va aggiunto, in seguito, il fatto che Emilio ha sempre avuto un grande gruppo di amici italiani. Il bazzicare ambienti italiani era non solo più facile per motivi di lingua, ma anche per motivi di identità: il vivere in un altro paese lo ha fatto sentire diverso, accentuando la sua identità italiana. In poche parole, è diventato più consapevole della sua italianità, e questa ha aumentato la sua voglia di frequentare i connazionali.
Questa ri-scoperta della sua nazionalità andò a braccetto con una rivalutazione della sua regionalità: cosa che lo ha spinto a diventare membro e in seguito presidente dell’associazione di Emiliano-Romagnoli di Bruxelles. Questa associazione gli ha permesso, tra l’altro, di conoscere i suoi corregionali di altre zone del paese, e di condividere con loro le tradizioni che hanno in comune.
L’emigrazione di mio padre è, in quarto luogo, singolare anche in termini culturali. Molti tra i suoi connazionali emigrati si sono integrati molto di più con la popolazione locale e, a causa della storica carenza di insegnamento della lingua italiana, i loro figli hanno frequentato quasi tutti scuole belghe.
Il francese è diventato quindi una prima lingua, o addirittura l’unica lingua. Inoltre, la conoscenza degli usi e costumi del paese d’origine è in declino, sopratutto a seguito di matrimoni con la popolazione natìa.
Le cose sono andate diversamente per mio padre, e di riflesso per me: in primo luogo, perché i figli di funzionari europei hanno accesso, tramite le Scuole Europee, all’istruzione nella loro lingua natia, il che permette loro quindi di parlarla e scriverla bene. In secondo luogo, essi hanno maggiori opportunità di diventare bi o trilingui. Il mio caso ne è un esempio: sono metà italiano e metà inglese.
Per concludere, dirò che il viaggio che mio padre intraprese nel 1980 è un esempio di come l’immigrazione non sia solo spinta dalla fame e dalla povertà, ma anche da un desiderio di affermarsi e di conoscere il mondo che ci circonda. E’ uno spostamento che, si spera, diventi l’unico tipo di emigrazione del futuro. Un futuro dove la povertà spero non esista più.