Claudio Lolli: (Il grande poeta russo) Majakovskij e la scoperta dell’America.
Buon Anno, cari ascoltatori: che il 2015 ci sia propizio, e sia un anno di felicità, di pace, di amore per tutti. E di buona musica, per quanto riguarda il nostro «Paesaggio dell’Anima» dove, come sapete, seguiamo un’ispirazione vagabonda, senza una meta o un tema preciso, andando «là dove ci porta il cuore», per citare un libro famoso. La bellissima canzone con la quale abbiamo iniziato l’anno è del cantautore bolognese Claudio Lolli. Il testo prende spunto dal libro “America” del grande poeta russo Majakovskij, che visitò gli Stati Uniti nel 1925, e da una poesia da lui dedicata a un altro poeta russo, Esenin. In questa poesia c’è un verso che fa riflettere: «bisogna strappare la gioia ai giorni futuri». Dunque, vivere il presente: un presente dove morire «non è difficile / è molto più difficile vivere». Poiché noi procediamo per associazioni, Majakovskij ci è venuto in mente non solo come pretesto per farvi ascoltare la canzone di Lolli, ma per un suo poemetto, «Di questo», del 1923, in cui il poeta, innamorato perso di Lili Brik, si paragona a un orso nel gelo senza amore dei ghiacci polari.
Carly Comando: Bear.
«Come un orso bianco / m’aggrappo a una lastra di ghiaccio. / Navigo sul mio cuscino-banchisa (…). Esposto sul ponte / al disprezzo / e allo scherno degli anni», scrive Majakovskij. «Forse, / forse un giorno, / da un viottolo dello zoo, / lei, / lei che amava le bestie, / entrerà nel parco». L’uomo che diventa orso, e l’orso che deve fare l’uomo. A questo pensavamo guardando le straordinarie fotografie custodite nel Museo degli Orsanti di Vigoleno, in provincia di Piacenza. Un museo nato nel borgo di Compiano, in provincia di Parma, e che documenta una vicenda di emigrazione unica in Italia: quella dei montanari del nostro Appennino che si guadagnavano da vivere facendo ballare orsi e scimmie nelle piazze d’Europa. La fondatrice del museo, Maria Teresa Alpi, era una discendente di una famiglia di orsanti di cui ha recuperato tracce in Danimarca. Dicevamo delle fotografie custodite nel museo, dove gli orsanti, stralunati vagabondi, hanno facce dure, da miseria; facce di montanari incapaci di stare fermi, girovaghi impettiti davanti ai loro dromedari, in posa con gli orsi resi inoffensivi dalla museruola. Ce n’è una, stupenda, di un orsante ben vestito e fiero, con panciotto, cappello, stivaloni, accanto al suo orso anche lui in posa, in piedi, che tiene con le zampe un lungo bastone. Ah povero orso ammaestrato e ballerino, dobbiamo dedicarti un po’ di musica!
Claudia Bombardella Ensemble: Danza dell’orso buono.
Un orsante che il nomadismo l’aveva nel sangue era Guglielmo Puelli, arrivato in Svezia nel 1880 dopo aver attraversato Russia e Finlandia. Dalla Russia aveva portato un orso gigantesco da lui stesso ammaestrato. La moglie Johanna, svedese, lo seguiva vendendo palloncini e giocattoli. I giornali riferiscono che Puelli dormiva con l’orso per riscaldarsi nelle notti gelide. Stabilitosi a Stoccolma nel 1890, fu convinto dalla moglie a smettere i panni del girovago per indossare quelli dello stuccatore. Rimpianse sempre la sua vita randagia, tanto da passare ore davanti alla vetrina del negozio della città vecchia dove era esposto, imbalsamato, il suo fedelissimo orso, morto dopo esser stato venduto. Gli orsanti erano il popolo dell’avventura selvaggia lungo le strade d’Europa. Bastava un carro trainato da un cavallo, come attrezzatura minima. Il passo successivo era possedere un cammello e dei cani ammaestrati. Lo spettacolo si svolgeva nelle piazze o nei cortili. L’orso camminava sulle zampe posteriori ballando al suono dell’organetto o fingeva di lottare col suo domatore. Al cavallo si insegnava a contare con gli zoccoli. Le scimmie e i cani facevano i loro numeri di abilità. Il cammello si lasciava salire in groppa dai ragazzini e li portava in giro per la piazza. Tutti si divertivano e gli adulti scucivano qualche soldo.
Carlo Monni, Arlo Bigazzi, Orio Odori & Giampiero Bigazzi: Io faccio l’orso.
Un altro orsante, Bernabò, nel suo girovagare andò in Crimea per acquistare cammelli e tra i ghiacci dell’Artico alla ricerca dell’orso bianco; poco alla volta, riuscì a mettere insieme un vero circo equestre con ottanta animali e cinquanta dipendenti. Arrivato a Costantinopoli ai primi del Novecento, gli fu chiesto di montare il suo spettacolo nei cortili della reggia apposta per il sultano. Al quale piacque così tanto che si comprò tutto il circo. Con i soldi ricevuti, Bernabò ne acquistò subito un altro, senza pensare a rincasare nel suo Appennino. Ma il primo conflitto mondiale lo sorprese a Sarajevo, dove dovette vendere tutto per tornare in Italia. Non pago, finita la guerra cercò di riprendere la sua vita errabonda. Ma era nato il cinema e l’epoca degli orsanti volgeva al termine. Cari ascoltatori, non possiamo finire senza fare le lodi dell’orso, animale mitico, totemico, protagonista del folclore, del teatro popolare e dello spettacolo di piazza nei villaggi e nelle campagne della vecchia Russia. E se un orso ammaestrato lo vediamo già in un quadro del tedesco Mathias Gerung del 1558, l’immagine con cui ci salutiamo è del 1911: è il disegno di un contadino col suo orso che cammina sulle zampe posteriori, per il quarto atto del balletto Petruška di Igor Stravinskij. Nella festa di carnevale sulla piazza dell’Ammiragliato, fa una fugace apparizione il nostro orso, e questa è la musica che lo accompagna.
Igor Stravinsky: Petroushka. IV Atto: The Russian Dance (Daniele Gatti & Orchestre National de France).