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5 Agosto 2008 | Archivio / Protagonisti

L’uomo che perse le Olimpiadi

Ricorre il centenario della sfortunata impresa di Dorando Pietri nella maratona di Londra 2008.

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

5 agosto 2008

Cari amici, c’è qualcosa di epico nella sfortunata vicenda di Dorando Pietri, il “protagonista” della puntata di oggi, che vogliamo ricordare in occasione del centenario.
Londra, 1908. L’emiliano Dorando Pietri è in testa alla maratona e ha staccato gli avversari di venti minuti. Mancano solo pochi metri al traguardo, ma l’atleta incespica e cade sfinito. Due giudici di gara lo sorreggono. Dorando arriva primo, ma viene squalificato.

Cominciamo dall’inizio. Memore dei fasti dell’antica Roma, il barone Pierre De Coubertin offre all’Italia la quarta edizione 1908 dei moderni giochi olimpici. Il capo del governo Giolitti rifiuta per mancanza di fondi e la paura di figurare male con i nostri “modesti” campioni. Il “piccolo” Dorando Pietri, ad esempio, come avrebbe potuto vincere la classica maratona? Lui, nativo di Mandrio, Reggio Emilia, trasferito con la famiglia a Carpi, nel modenese, cresciuto a polenta e saracche, battere inglesi e americani nutriti a bistecche e pillole vitaminiche? Improbabile.

Eppure il 24 luglio 1908, i 42 chilometri e 195 metri del tracciato dal castello di Windsor allo stadio londinese di White City sono percorsi con intelligente energia dal reggiano-carpigiano contro i favoriti, Tom Longboat, pellerossa canadese, e John Hayes, statunitense. Dopo ore di intensa corsa, il traguardo è vicino. Dorando ha staccato gli avversari di venti minuti. Mancano soltanto pochi metri, ma il maratoneta italiano, sfinito, senza fiato, incespica e cade. Due giudici di gara, impietositi, lo incitano, lo sorreggono. Così Dorando arriva primo, ma gli tocca la squalifica, con un verdetto che suscita l’indignazione generale.

Drogato, puzza di stricnina, dicono; mentre è solo l’odore dell’aceto balsamico della spugna che stringe in mano, misto a sudore. Non serve il risarcimento del pubblico plaudente. Non vale la coppa donatagli da Alessandra, regina d’Inghilterra, commossa dalla sfortuna dell’italiano e sollecitata da Conan Doyle, giornalista scrittore, padre del famoso investigatore Sherlok Holmes. Dignitosa-mente amare le parole conclusive del podista sul Corriere della Sera, 30 luglio 1908: “Io non sono il vincitore della maratona. Invece, come dicono gli inglesi, io sono colui che ha vinto e perso la vittoria”.

E’ ormai trascorso un secolo dall’impresa olimpica. Ma la vicenda di Dorando Pietri conserva ancora una sorprendente capacità di coinvolgimento. Lo attestata il romanzo biografico Il sogno del maratoneta, firmato da Giuseppe Pederiali, che compie una navigazione franca e spedita a ridosso del personaggio. Non per doveroso centenario, ma con prosa sciolta, libera, che si impenna verso il protagonista e il suo destino. L’osservatore Pederiali lascia l’iniziativa alla realtà, attualizzando il giro delle notizie e dei sentimenti. Fin troppo simile allo sport contemporaneo, la maratona di allora, con star mondiali ed enormi guadagni, con tentativi di doping, intrallazzi e prestigiose tournée oltreoceano.

Alla base c’è una forza di intuizione anticipatrice per il ragazzo e l’uomo Dorando davvero singolare: la corsa, il correre che è bello, la corsa a piedi come modo sovrano, liberatorio, dell’esistere. Tutto uno spazio biografico potentemente aizzato, fedelmente determinato dal fattore vitale del correre. Vocazione mentale e attitudine fisica qualificante: il Dorando Pietri di Pederiali possiede una sua carta da giocare alla luce degli avvenimenti, e spesso queste carte sono dei veri e propri assi. Uomo contro cavallo all’inizio: Dorando a piedi sfida e vince Arturo Marchi in calesse. Insolita maratona di Parigi per dilettanti: i francesi con la puzza sotto il naso rimangono male a vedere il loro idolo declassato da uno sconosciuto italiano: Giunto nel Nuovo Continente, in terra di “Merica”, rivincita clamorosa su John Hayes al Madison Square di New York, taglio del traguardo con mezzo giro di anticipo rispetto all’ingiusto vincitore londinese 1908.

Rientrato in patria, stanco, indebolito, negli ultimi anni Pietri porta in giro con la Balilla i turisti americani sulla Riviera dei Fiori. Il suo cuore generoso cessa di battere nel febbraio 1942, in piena guerra. Disinteresse, dimenticanza totale. Passano inosservati l’antico, ingenuo, ostinato campione e la sua morte. Nessun giornale italiano o inglese ne parla.

 

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