Chi è Nikolaj Gogor? Come funzionava il meccanismo occulto con cui l’Unione sovietica finanziava il Partito comunista italiano? E quando ha avuto inizio il disincanto che oggi ci permette di vivere senza ideali? Da queste domande, e dal racconto di un nonno al suo nipote, prende le mosse il primo romanzo di Alberto Cassani, ambientato tra Mosca e Ravenna.
Prologo
Per chiarire subito che si parlerà del passato e che non c’è realtà senza finzione
Il bello del passato è che non torna. Il brutto è che non passa. O viceversa. Nel mio passato, quello che qui mi interessa, c’erano alcuni segni ricorrenti, piccoli arcani divenuti familiari.
C’era quella scritta, «Nixon boia», sul muro del palazzo di fronte e molto lontano c’era una guerra, del tipo Davide contro Golia. E noi, ho capito dopo un po’, stavamo con Davide.
C’era un concerto in una piazza piena di pugni chiusi alzati verso il cielo; migliaia di voci ritmavano un ritornello in una lingua straniera. Le parole sono riuscito a decifrarle solo molti anni dopo, quando (in un breve periodo di esaltante ottimismo) ho creduto anch’io che esistesse un popolo, che, unito, non sarebbe mai stato sconfitto.
C’era una distesa di bandiere rosse al comizio di chiusura della Festa dell’Unità. Un immenso mosaico di volti: uomini e donne di tutte le età che sembravano felici di poter condividere qualcosa, magari anche solo le ore di quel pomeriggio e il colore di quelle bandiere al vento sopra il prato assolato.
C’erano ritrovi di vecchi partigiani (dico «vecchi» perché così mi sembravano, anche se avevano poco più dell’età che ho io adesso): mangiavano, bevevano e giocavano a carte. Poi, a un certo punto, rievocavano storie d’amore e di guerra e il loro sguardo si accendeva come quando avevano vent’anni.
E poi c’ero anch’io ed ero un bambino. E i miei ricordi sono scoloriti, evanescenti e frammentari.
Eppure quelle immagini sfuocate erano legate a fatti molto concreti. Attorno a essi è ruotata per decenni la vita vera di una moltitudine di uomini e di donne.
Di tutto questo ormai resta ben poco. Anche perché tanti di quegli uomini e di quelle donne, proprio come se appartenessero a un’altra èra geologica, si sono estinti o sono in via di estinzione. I loro, di ricordi, e l’infinità delle loro piccole storie stanno svanendo. E noi ci ritroviamo sempre più soli con noi stessi, con il caos delle nostre vite, senza veri punti di riferimento, in balìa delle nostre insuperabili fragilità, intrappolati nella trama incolore del nostro quotidiano.
Peccato, perché, dopo la fine, nel ricordo di ciò che è stato, tutto potrebbe acquietarsi e acquistare un senso. Certo, il ricordo soffrirebbe pur sempre di labilità e di approssimazione e solo uno sforzo creativo, un estremo esercizio di finzione, potrebbe aiutarlo a ritrovare i suoi contorni. Questa finzione, a ben vedere, è la forma più razionale di realtà. Per essere perfetta, le manca solo di essere vera; ma siccome, in generale, la verità è inafferrabile, si tratta in fondo di un’imperfezione di poco conto.
Questo, più o meno, pensavo alcuni mesi fa, mentre prendeva corpo l’idea di raccontare gli avvenimenti che mi erano appena successi e che mi avevano aiutato a capire meglio le traiettorie dell’animo umano. Ma non bastava volerlo, bisognava prendere la giusta distanza e attendere il balenare della vera immagine del passato. Perché è solo allora, mentre il ricordo riaffiora e si dipana il filo della memoria, che il gioco della finzione può avere inizio.
Oggi è domenica, una domenica mattina come tante. È più facile pensare, la domenica mattina. Si dorme un’ora in più, il tempo rallenta e l’esistenza sembra più lieve. Ed è il momento per i racconti.
Ecco perché questa storia inizia proprio una domenica mattina, quando l’aria frizzante d’autunno accarezza ogni cosa come per tenerla in vita.
1
Dove il nonno del protagonista dà inizio alla storia
C’è un complesso di condomìni in un quartiere residenziale della prima periferia. Sono palazzi coi mattoni a vista, costruiti alla fine degli anni Sessanta dalla più grande cooperativa di costruzioni. Qualcuno, quell’insieme di palazzi rossi, lo chiamava «il Cremlino». Ci hanno abitato quasi soltanto dirigenti comunisti: tra questi, alcuni assessori comunali e provinciali, ex sindaci, dirigenti sindacali, presidenti di cooperative, un presidente di Regione, un deputato. Insomma, una parte significativa della nomenklatura della provincia, come si conveniva alla capitale bizantina della Romagna rossa. Ora però sono morti quasi tutti. Il quartiere rimane un modello di urbanistica a misura di uomini, donne e bambini: comprende infatti palazzi di buona fattura, negozi per ogni esigenza, sedi di cooperative e, a brevissima distanza l’uno dall’altro, un asilo nido, una scuola materna e una elementare. Al centro del quartiere domina il verde di un grande parco. È lì che ho vissuto la mia infanzia e le geometrie di quei luoghi sono ancora oggi gli scenari dei miei pensieri. Ed è proprio lì, in uno di quei condomìni, che mi sto recando.
Dalla penombra del suo studiolo, che un tempo era la cameretta per gli ospiti, eccolo che mi saluta, seduto sulla sua poltrona a dondolo. Aspetta che mi sieda di fronte a lui, poi comincia subito a parlarmi, come spinto da un’insolita urgenza: «Ci ho pensato tutta la settimana e ho deciso che oggi ti avrei raccontato una storia. Una storia di molti anni fa. Molti ma non moltissimi. Il titolo potrebbe essere: La mia ultima volta a Mosca. Magari la troverai interessante e sentirai cose che non ti aspetti… Cosa ne dici? Hai voglia di ascoltarmi?».
Chi parla è mio nonno, il padre di mio padre, si chiama Mario ed è ormai a metà strada tra i novanta e i cento. La sua memoria è labile e spesso lo abbandona nel bel mezzo di un discorso (ed è più che normale, visto che capita anche a me che ho quasi cinquant’anni di meno). Comunque, fa uno sforzo per cercare di essere preciso e di non interrompersi. Con me parla in italiano, solo ogni tanto gli scappa qualche espressione in dialetto. Riproduco a memoria il suo racconto e le sue considerazioni, e dunque utilizzo talvolta parole che sono mie e non sue, ma lo faccio solo per rendere il più fedelmente e chiaramente possibile il senso di quel racconto e di quelle considerazioni.
«Tu sai che sono stato molte volte in Unione Sovietica, a partire dagli anni Cinquanta; i primi viaggi furono emozionanti, poi divennero uno simile all’altro, tranne l’ultimo, che, appunto, merita un racconto.
Era ormai il 1991 e come sempre eravamo io e Bettini. L’inverno stava finendo, mi pare fossimo all’inizio di marzo, e a Mosca tutto stava per cambiare. C’era un’aria strana e si respiravano tensione e insicurezza. O comunque a me sembrava fosse così. Nel giro di un anno e mezzo, era caduto il Muro, erano crollati i vecchi regimi dei Paesi dell’Est, in Urss era finita l’epoca del Partito Unico e le Repubbliche Baltiche si erano prese l’indipendenza. In quella situazione, tutto poteva succedere. Avevamo in ballo importanti questioni politiche e finanziarie e siccome i contatti coi nostri interlocutori sovietici erano diventati intermittenti, avevamo deciso, d’accordo coi vertici del Partito, di andare là di persona. La missione era rischiosa perché non si capiva più chi comandava e i riferimenti non erano più certi.
Per fortuna non avevamo avuto particolari problemi coi visti e in pochi giorni avevamo organizzato il viaggio.»
Si ferma e beve un sorso d’acqua, è già affaticato, ma ricomincia subito: «Alloggiavamo all’Hotel Marriott, che si trova non lontano dal Cremlino, sull’interminabile via Gorkij, che da qualche mese era tornata a chiamarsi Tverskaja. Prima eravamo clienti fissi del gigantesco Hotel Rossija, a due passi dalla Piazza Rossa. A ogni modo, il Marriott era un hotel molto bello, e comunque di gran lunga più confortevole del più confortevole degli alberghi sovietici di un tempo.
Quella volta, che fu l’ultima, arrivammo in albergo verso sera, era ancora molto freddo ma non c’era neve, né ghiaccio. Come sai, Bettini parlava un ottimo russo ed era gioviale, e quindi non solo si faceva capire, ma riusciva anche immediatamente simpatico. Entrammo al Marriott dopo un lungo tragitto in taxi; andammo verso la reception coi documenti e, mentre lui parlava, io mi guardavo un po’ attorno. Lo spazio era ampio ma non affollato. Nei salottini dell’atrio c’erano un paio di coppie attempate, un gruppo di uomini a un tavolino che conversavano tra loro e poi c’era un uomo da solo che leggeva il giornale seduto in un angolo tra un armadio d’epoca e un grande specchio. C’erano anche le solite donnine, un paio, che, truccate e sorridenti, ci fissavano con insistenza. Ricordo questi dettagli perché avevo imparato a dare importanza anche alle piccole cose, alle singole parole, ai minimi movimenti… Le nostre stanze erano vicine, una accanto all’altra. Quella sera decidemmo di cenare in albergo, poi uscimmo per bere qualche bicchierino di vodka in un locale che conoscevamo, proprio sulla via Gorkij. Fuori c’erano quel buio e quel freddo con cui Mosca mi aveva accolto quasi quarant’anni prima, quando ancora non pensavamo minimamente di doverci tornare così tante altre volte. Eravamo bardati come si deve: Bettini con un pellicciotto marrone e col suo fedele colbacco, che a Mosca portava anche d’estate, e io con un pesante paltò verdone e una coppola scozzese.
A un bel momento, Bettini mi fa: “Mario, non girarti, ho paura che ci stiano seguendo…”. Io subito non capisco bene cosa sta dicendo, mi fermo e gli chiedo: “Cosa hai detto?”. “Non ti fermare, andiamo avanti…”. Poi riprende: “Dico che ho visto uno che è uscito dall’albergo dopo di noi, e ci sta seguendo”. “Ma scusa, potrebbe essere semplicemente uno che si fa i fatti suoi, perché dovrebbe proprio seguire noi?”.
Sono solo le dieci di sera, ma la strada è quasi sgombra, c’è silenzio. Ancora cento metri e siamo al locale, li facciamo quasi di corsa e ci infiliamo dentro. Entrando, mi volto e vedo sul nostro marciapiede venti passi più indietro la sagoma di un uomo a testa bassa con cappotto e cappello. Entro prima che lui alzi la testa. Una volta dentro, tiriamo un lungo sospiro. Ci sediamo sugli sgabelli davanti al bancone del bar e ordiniamo due vodke lisce, poi dico a Bettini: “Perché sei così agitato?”. E lui: “Non mi sento sicuro, per la prima volta non mi sento sicuro”. Io cerco di spiegargli che magari ci stavano anche controllando, ma che non ci avrebbero fatto niente, non era nella convenienza di nessuno e poi il nostro affare non era così importante. A poco a poco lo convinco; alla terza vodka eravamo già a parlare di politica e dei grandi cambiamenti che stavano avvenendo.
Rientrammo poco prima di mezzanotte. La Gorkij era deserta, incrociammo solo un’auto della polizia quasi davanti all’albergo.
Prima di ritirarci a dormire, Bettini mi invita a seguirlo nella sua camera. Una volta entrati, perlustra ogni angolo della stanza per scovare eventuali microspie, poi, quando si sente più sicuro, apre la sua valigia e da uno scomparto tira fuori una pistola. Una pistola vera! Una Makarov. Gli chiedo se è diventato matto e come ha fatto a superare il metal detector dell’aeroporto e lui risponde: “Tecniche top secret, me le ha insegnate uno del Kgb…”. Non so se sta scherzando o no, ma dopo essermi raccomandato con lui (“Senti Bettini, cerchiamo di non fare sciocchezze”), esco dalla sua camera esterrefatto.
Ricordo che quella notte dormii pochissimo, avevo passato i settant’anni, dunque ero già piuttosto anziano, ma mi vennero le stesse ansie che avevo a venti. Sai quelle paure notturne per ciò che potrà succedere, come se la tua vita dipendesse esattamente dai fantasmi della tua mente. Non mi capitava dai tempi della clandestinità e della lotta partigiana, e questa mia fragilità un po’ mi sorprese.
Nella veglia pensai alla città che ancora una volta ci ospitava, a Mosca, che per decenni era stato il teatro dei nostri sogni. Un luogo mitico che si era caricato delle speranze di generazioni di comunisti di tutto il mondo. Naturalmente la realtà era tutta un’altra, me ne accorsi sin dai primi viaggi, c’era povertà, seppur dignitosa, un generale livellamento sociale verso il basso, e una confusione tipicamente russa, disciplinata soltanto da un rigido controllo burocratico e poliziesco. Eppure ho sempre pensato che quell’esperienza di socialismo in un Paese povero e sconfinato, che nella sua storia non aveva mai conosciuto la democrazia ed era arrivato alla dittatura del proletariato senza passare dal capitalismo; in questo Paese che dagli Zar a Stalin fino oggi a Putin aveva mantenuto fede a un fondo di nazionalismo ben radicato; be’, insomma, in questo particolare tipo di Paese, quell’esperienza di socialismo era comunque meglio di qualunque forma di sfruttamento capitalistico.
Ma al di là di tutto questo, Mosca non mi è mai piaciuta, era ed è immensa, difficile da girare, sempre troppo fredda, insomma è una città che ti inghiotte e ti mette a disagio…». (Sì, insomma, non è il racconto brioso con cui Serena Vitale tratteggia il suo tragicomico impatto con la Mosca brezneviana, ma la sostanza non è così diversa.)
«Dormii forse un paio d’ore, e quando mi svegliai il mio pensiero si concentrò subito sull’appuntamento col nostro contatto. Era previsto per mezzogiorno, per cui avevamo tutta la mattina libera. La passammo lì in zona, tornando a visitare il Cremlino, ma evitando il Mausoleo di Lenin, troppo ingombro di gente.
Il nostro contatto, si chiamava Gogor, come lo scrittore ma con la r al posto della l. Per noi era diventato “l’uomo di Mosca”, anche se qualche dirigente del nostro Partito, viste le mie frequenti missioni sovietiche, aveva preso a chiamare me con lo stesso appellativo. Quella volta, l’incontro, fissato via telefax una settimana prima, doveva svolgersi nella zona dell’Arbat, a un paio di chilometri dall’Hotel Marriott e…».
Si ferma ancora, stavolta perché, sulla soglia dello studiolo, è apparsa la nonna. Lei è sempre stata più alta di lui che, d’altra parte, non è mai stato più alto (ma neanche più basso) del Re Sciaboletta. Ci è voluta la vecchiaia e l’artrosi della nonna per riequilibrare le loro stature. Comunque, per quanto piegata su se stessa e rinsecchita dall’erosione dell’età, riesce ancora a essere perentoria: «Basta coi racconti, che è pronto da mangiare. Finite un’altra volta che tanto non cambia niente!». La nonna, alla fine della guerra, nella quale aveva servito come staffetta, era stata congedata col grado di sergente e il carattere del sergente di ferro era ben conservato anche sulla soglia dei novant’anni.
«Ma sì, ha ragione la nonna», aveva detto Mario più per non contraddirla che per convinzione, «riprendiamo la prossima volta.»
Così ci siamo salutati, chiudendo il nostro incontro settimanale.
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