16 settembre 2008
Morire a 21 anni con la testa tagliata. Poteva capitare, nell’Italia fosca e guerriera del Quattrocento, anche a una bella ragazza. A madama Parisina Malatesti (1404-25) è stato dedicato un Concerto il maggio scorso alla Galleria Estense di Modena, all’interno delle Serate Estensi e in occasione della presentazione del libro di Roberta Iotti e Elena Bianchini Braglia “Madama Parisina. La protagonista del peccaminoso scandalo estense nella storia e nella letteratura” (Edizioni Terra e Identità).
Il Concerto di “Musiche per Parisina” è stato eseguito in prima assoluta il 9 maggio per il Festival Musicale Estense. Noi vi facciamo ascoltare, per creare l’atmosfera, alcuni brani del XIV secolo di Guillaume de Machaut, di Francesco Landini e del Magister Guglielmus, eseguiti da Micrologus.
La vicenda di Parisina ve la raccontiamo con il testo letto da Franca Lovino in occasione delle Serate Estensi. La nostra voce narrante, però, è quella di Mascia Foschi.
Parisina Malatesti d’Este, uno scandalo d’altri tempi
Parisina, figlia del signore di Cesena Andrea Malatesti e di Lucrezia Ordelaffi, nacque in una famiglia funestata da lutti sinistri e sinistri avvelenamenti, e dopo l’infanzia e l’adolescenza trascorse alla corte di Rimini presso gli zii Carlo Malatesti ed Elisabetta Gonzaga, approdò a Ferrara sposa per vantaggio della sua casata a un uomo molto più vecchio di lei, un quarantenne saggio e prudente in politica, famoso per le arti diplomatiche, gran protettore dei vicari di Romagna, ma forsennato fuor di misura quando si trattava di donne, che amava in grande numero e contemporane a mente, senza distinguerle fra aristocratiche e popolane, e generando frotte di figli che poi sovente riconosceva e si teneva in casa. E in casa Nicolò III d’Este teneva pure la sua
amante prediletta, la splendida senese Stella dei Tolomei, che sempre sperava di essere un giorno sposata dal marchese, e che non sperò più quando il marchese sposò invece la Malatesti.
Era bella Parisina, e sempre abbigliata con un tocco sopraffino di Francia, i capelli raccolti sotto veli candidi, o intrecciati a nastri bianchi, e le stoffe degli abiti scelte tra lini, damaschi e velluti di angelica qualità. Dentro le camere del suo appartamento di Rigobello, al piano nobile dell’antico palazzo marchionale, ella coltivava i passatempi di un’autentica dama bretone, e rapiva le orecchie e gli animi quando accarezzava le corde dell’ arpa, e struggeva i cuori quando leggeva le pene d’amore di Isotta e di Tristano, e poteva incatenare alla gioia o alla disperazione quando con la chiaroveggenza di una maga sapiente traeva auspici dai tarocchi. Era brava anche a cavalcare Parisina, ad allevare cavalli, a cacciare, a uccellare con il falcone, ad ammaestrare pappagalli, sparvieri e civette. Ed era anche una buona moglie, nobilmente indifferente ai continui tradimenti del consorte, superiore ad affanni che mai avrebbero potuto inquinare la sua regale dignità, solerte nel provvedere ai bisogni delle sue bambine e di tutta la famiglia, compresi i figli non suoi. Ma poi un giorno la marchesa partì, partì per un viaggio. E qui è inutile indugiare sui toni sospirosi della bella storia d’amore perché l’occasione fu il vero prodromo della tragedia, l’antefatto delizioso che però fece scartare la vita di due giovani nel fiore degli anni verso il cupo registro dello scandalo, incontenibile, e della morte, ineluttabile. Perché Parisina durante quel viaggio a Ravenna, nella casa della sorella Elisabetta da Polenta, vide Ugo, il figlio primogenito di suo marito e di Stella, che l’aveva scortata fin lì per volere dello stesso Nicolò e le aveva tenuto compagnia per tutta la durata del soggiorno – un mese lunghissimo, eppure volato in un soffio -, con occhi diversi: d’improvviso, lui non fu più il figliastro capriccioso da tenere a bada con denari e doni, non più l’erede designato da educare con costumi e concetti degni di. un signore, non più il principe al quale trovare da buona madre una buona sposa: Ugo, come per una magia di Merlino, era diventato, lì, a Ravenna, un uomo di rara bellezza, un ragazzo a lei coetaneo e congeniale, il cavaliere dal cuore puro che le provocava brividi sconosciuti, pensieri ardenti e rischiosi. E anche a Ugo accadde di non vedere più la consueta Parisina, non più la matrigna che aveva rubato le nozze a sua madre, non più la domina organizzata e fattiva che ordinava vesti per tutti e si preoccupava degli studi di ciascuno, no, non più costei ma un’altra, una fanciulla che ancora confidava nelle sorprese della vita, deliziosa e arguta, istruita e brillante, condannata al fianco di un uomo incorreggibilmente adultero, e ancora ignara di cosa fosse un amore condiviso. Bastarono pochi giorni, e i due si innamorarono. Un anno durò quell’ infatuazione pazza e clandestina, quel rapimento dei sensi al limite della dissennatezza che ogni giorno metteva a repentaglio l’onore della Casa d’Este, che ogni giorno viveva di rischi terribili, ma che ogni giorno, inevitabilmente, tornava a sorgere insieme con l’aurora. La “delizia” fuori porta di Fossadalbero, le belle ville di Belfiore, di Porto, di Consandolo e di Quartesana divennero i luoghi dei loro appuntamenti segreti, la marchesa durante l’anno 1424 fu quasi sempre in viaggio, a Ferrara sembrava non avere più pace, le sue bambine venivano caricate in carretta con qualsiasi cielo, in
qualsiasi stagione, i bagagli appena disfatti erano subito cambiati e di nuovo pronti, la sua arpa spesso dimenticata, il Romanzo di Tristano, invece, sempre con lei, come una Bibbia, e la sua bellezza che sfolgorava nonostante la fatica di quelle partenze repentine esposte a mille sospetti, di quelle villeggiature fuori dell’ ordinario, sovente improvvisate anche nel cuore dell’ inverno e in dimore estive riscaldate alla meglio.
Sul finire di maggio del 1425, al culmine della tensione di un anno vissuto pericolosamente, a Parisina, però, scappò uno schiaffo di troppo. Si dice che non fosse solita avere maniere brusche con i suoi sottoposti, ma di certo aveva maniere autoritarie, conformi alla sua posizione di signora regnante. Tuttavia, quel ceffone assestato sulla faccia di una fantesca permalosa, che probabilmente qualcosa aveva visto e molto aveva capito, le fu fatale: la ragazza, offesa, corse in lacrime da un segretario di Nicolò III, tale Zoese, riferì l’accaduto e riferì anche il resto, quello che ormai sapevano in molti in corte malgrado le accortezze di Madama e del signor Ugo, disse, insomma, e senza reticenze, che matrigna e figliastro si amavano di nascosto, e che si sarebbero amati anche quel giorno, lì, a Ferrara, sotto il tetto del marchese, perché ormai la passione e la scaltrezza avevano avuto il sopravvento sulla cautela, e F ossadalbero era troppo lontana per darsi rapidamente convegno. Sulle prime Nicolò non volle credere a ciò che gli comunicava Zoese, e a ciò che spifferava pure a lui la fantesca. Anzi, poco ci mancò che anche dalle sue mani pesanti partisse un colpo alla. volta di quella bocca piagnucolosa e poveretta che sputava incredibili ignominie. Poi però si riebbe, rifiatò, si riaggiustò i lineamenti del volto increduli e basiti, si passò una mano sugli occhi per fare buio un attimo e riprendere il contegno signorile, aprì bene le orecchie, si schiarì la voce e volle risentire tutto daccapo. Tutto. Nulla escluso. Nulla risparmiato. E alla fine di quella seconda, puntuale relazione aveva già deciso: li avrebbe spiati quei due sciagurati, li avrebbe scoperti, arrestati e condannati. Non subito, però. Certo intimò il silenzio al tremebondo Zoese e dopo qualche ora, conducendo lo con sé in veste di testimone, andò a verificare di persona, attraverso un buco aperto nel soffitto della stanza della moglie, che la storia fosse vera. Ma poi al cospetto della cruda realtà lasciò che i due amanti continuassero le loro effusioni, i loro abbracci, i loro amplessi, forse, per quanto inorridito inferocito e distrutto, da quel sensuale impenitente che era, da quel gaudente sempre innamorato dell’ amore e del corpo femminile, non se la sentì di distruggere sul più bello tanta meraviglia, tanta felicità, tanto godimento del cuore e del sangue. Per qualche minuto rimase fermo a guardare, sentendosi vecchio e affranto, e non sentendosi più né marito né padre ma soltanto un uomo solo, e doppiamente tradito. Poi si rialzò, disse a Zoese di guardare a sua volta, quindi chiuse il buco accuratamente, silenziosamente, e andò via. Due giorni dopo, all’alba del 21 maggio 1425, sull’impiantito di una cella sotterranea della Torre Marchesana di Castello
rotolarono via nell’ordine: la testa di Aldobrandino Rangoni, mezzano del principe ingrato; le teste di due ancelle, paraninfe silenti dell’ obbrobrioso oltraggio della marchesa al marito; e la testa di Ugo d’Este, che invano aveva implorato il perdono al padre e ai fratelli. Per ultima si accostò al ceppo del boia Parisina. Le fu detto che Ugo era già morto, e allora nobilmente si dispose a morire.