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19 Novembre 2015 | Racconti d'autore

Mare d’inverno

Testo tratto dal romanzo omonimo di Grazia Verasani (Firenze-Milano, Giunti Editore, 2014)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Alessia Del Bianco

Agnese, Vera, Carmen. Un’insegnante, una giornalista e una doppiatrice: tre donne alle prese con un’età che porta a fare bilanci. Sono le tre protagoniste del romanzo che Grazia Verasani ha ambientato su una riviera romagnola fuori stagione.

La banda di stracchi pini marittimi che ci accolse, svoltata la prima rotonda, in una foschia densa che schiariva il cielo, colorandolo di un deprimente marroncino, contribuì a farci rimpiangere di essere partite. Pensai che niente come un minuscolo lido in inverno aveva il potere di rendere la tristezza più triste e la solitudine più sola.
Attraversammo lentamente il piccolo centro dai bar e negozi serrati, file di lampioni allineati come soldatini dormienti, scarse insegne di ristoranti, palazzine biancoazzurre perlopiù disabitate, qualche albero addobbato con palle e festoni: magra consolazione natalizia dei pochi residenti.
Quel luogo spento, letargico, che in estate diventava meta arlecchinata di vacanze, di sapori di sale e schitarrate in spiaggia, di discoteche affollate e birrerie, bancarelle di souvenir, tavolini all’aperto, vetrine di abiti firmati e sesso da pineta, e che avrebbe sparso intorno l’odore mielato degli oli solari insieme a quello urticante di spray antizanzare, adesso sembrava in stato di fermo come un sospettato: un vagabondo accusato di vivacchiare nella stagione sbagliata, col sedere gelato sulle panchine, afflitto dal sopore trasognato di un tempo malinconicamente sospeso. Le stradine che pendevano verso il mare erano buie e vuote, così come la maggior parte dei condomini sembrava senza vita. Qui e là troneggiava l’insegna di un hotel, prevedibilmente senza clientela. In estate, l’isteria liberatoria dei bagnanti avrebbe dato una scossa a quell’inerzia, il luna park delle ferie risicate sarebbe risorto dalle paludi della bassa stagione, ma adesso era come muoversi all’interno di un fosco dormitorio.

La ragione che aveva spinto Carmen a rifugiarsi lì per medicare le sue pene d’amore, o per alimentarle, mi era del tutto imperscrutabile. Vera parcheggiò l’auto in un vialetto inghiaiato e ci trovammo davanti a una villetta a due piani coi muri verniciati di un pallido color pesca, un cancello di ferro nero e un breve giardino con qualche albero, una panchina di legno, un gazebo e uno scivolo per bambini. Il mare era a due passi, ne sentivamo il ruggito poco tranquillizzante, e tirava un vento forte e intimidatorio che rendeva quel silenzio assoluto ancora più sconcertante.
Non fu necessario cercare il campanello: Vera cominciò a chiamare Carmen a gran voce, mentre io scaricavo i bagagli dall’auto. Quella che ci venne incontro, avvolta in una sciarpa rossa chilometrica e una camicia da notte felpata abbastanza corta da lasciare scoperti i grossi polpacci e un paio di ciabatte di pelo, era una donna imponente e singhiozzante che ci buttò subito le braccia al collo ripetendo quanto era felice di vederci. Introducendoci in casa, non smise per un attimo di parlare e toccarci per stabilire un contatto, ancora incredula che fossimo lì, con lei, in carne e ossa. Poi si staccava, osservandoci in distanza con le mani sui fianchi, per sincerarsi della nostra presenza, e riprendeva a toccarci, baciarci, abbracciarci, cosa che a Vera cominciò presto a infastidire.

Mi guardai intorno, il soggiorno con cucina a vista era ampio, arredato in modo graziosamente spartano, e sì, come Vera aveva previsto, c’era un’apoteosi di vimini dappertutto, dal divano componibile imbottito di cuscini alle poltroncine che accerchiavano un orribile camino elettrico che emanava una luce azzurrastra. C’era una piccola tv fissata a una parete, accesa senza l’audio, mobili laminati di finto legno, un neon fluorescente puntato sul bancone di finto granito della cucina, tende di un bianco smorto trafitte da enormi ancore blu e, alle pareti, quadretti di paesaggi marini dentro cornici d’alluminio.
I muri trasudavano umidità, ma non faceva freddo. In quello spazio a cui solo l’arrivo dell’estate avrebbe dato un tocco d’allegria, regnava un caos di vaschette da rosticceria, lattine di Coca-Cola Light, scatole di biscotti, cellophane di merendine, plaid infeltriti, libri e custodie di cd sparpagliati per terra.

Carmen aveva un’approssimativa crocchia di ricci scuri sulla nuca, la camicia scollata che pendeva da un lato e gli occhi bordati di rosso.
Era pronta per girare la scena della protagonista sciatta e disperata di un film neorealista, anche se l’immutata floridezza dei suoi fianchi e il tono di voce acuto e squillante le davano più un’aria da adolescente arrabbiata degli anni Settanta.
Il patimento degli ultimi giorni, che non vedeva l’ora di confessarci, si mostrava anche in quel paio di centimetri di ricrescita bianca e nel suo girovita aumentato, nonostante si ostinasse a ripeterci che aveva perso del tutto l’appetito. Ci domandò se avevamo fame e senza attendere risposta aprì il frigorifero, prelevò due bistecche da un vassoietto di polistirolo e le ficcò in un tegame. Sopraffatta dall’emozione di averci lì, in quel posto fuori dal mondo e dal tempo, non diede retta a Vera che ripeteva che avevamo cenato in autogrill. Si allontanava a grandi passi per prendere qualcosa, uno strofinaccio da un gancio, una tazza, un bicchiere, ricacciando indietro un singhiozzo, tirando su col naso, con noi che non sapevamo come calmarla e storcevamo il naso appena il suo fiato alcolico ci alitava addosso una zaffata. Finalmente lasciò perdere i fornelli e si accasciò di peso su una sedia, fissando il camino con aria inespressiva.
Vera, appoggiata a una parete, dava lunghi tiri dalla sigaretta, e io pensavo solo che Carmen era sbronza e che forse di lì a poco sarebbe svenuta. Sgranò gli occhi, li richiuse di scatto, fece un respiro profondo e si rialzò traballante. Vera le fece segno di restare seduta, avvicinandosi al lavello e prelevando da uno scaffale illuminato da un faretto un barattolino di caffè, e da una mensola una macchinetta. Mi avvicinai a Carmen e l’abbracciai forte, stringendole il palmo umido della mano.

Volevo bene a quella donna sbalestrata, al suo viso tondo, armonico, senza rughe, alla sua voce addestrata a doppiare le attrici straniere, che adesso era una vocina che strascicava frasi senza senso sull’ultimo stronzo che l’aveva presa in giro. Da quando la conoscevo, non le era mai mancato il coraggio, o la più deleteria incoscienza, di passare da un uomo all’altro come da un film al successivo in sala di doppiaggio. Un’ingenuità sbalorditiva le aveva sempre impedito di fare tesoro delle esperienze del passato. Carmen, in queste cose, era sempre stata diversa da noi, dal mio apparente distacco o dal cinismo di Vera che sentenziava che l’amore è pericoloso come una macchina che ti taglia la strada. Non ci aveva mai dato retta, non aveva mai seguito i nostri consigli, e noi ci eravamo rassegnate. Forse, la sua riserva di dolore era inestinguibile.
Vedendola scossa da un’improvvisa ondata di nausea, la seguii in un piccolo bagno piastrellato di rosa. Il tappo era saltato e dalla gola le uscivano a fiotti pezzettini di cibo incolore. Le bagnai la fronte con un asciugamano di spugna e, appena si fu svuotata lo stomaco, insistette per lavarsi i denti.
Tornammo in soggiorno. Ci sedemmo tutte e tre intorno a un tavolino verde mela con le gambe d’alluminio, davanti a tre bicchieri panciuti pieni di caffè. Sembravamo tre sedie spaiate. Carmen con uno sguardo gonfio e stralunato, io in una sorta di trance e Vera che come al solito proteggeva i suoi confini col fumo denso della sigaretta. Sbirciai la scaletta moquettata che portava alla zona notte, e subito dopo i resti di dentifricio sul mento di Carmen. Vera intrecciò le mani intorno a un ginocchio e biascicò qualcosa sulla pacchianeria di quel caminetto di braci finte. Un paio di mutande spuntava dalla spalliera della sedia su cui era seduta, ma lei non ci fece caso.
«Allora, il tuo affaire de coeur?» disse a Carmen, con incerta ironia. Le lanciai un’occhiata in tralice per farle pesare la sua mancanza di tatto. Lei diede un paio di colpi di tosse. «Adoro quella pazza della Berté, Carmen,» e la guardò «ma Il mare d’inverno è solo una bella canzone. Con tutti i posti che ci sono al mondo, dovevi rintanarti proprio qui?».
Soffocai una risatina. «Già, perché non un albergo a quattro stelle?» feci io.
«Volevo abbrutirmi in santa pace, e le mie finanze…» incespicò un po’ nelle parole. «In realtà speravo che Sandro si chiedesse dove ero finita, e l’estero sarebbe stato troppo lontano, nel caso gli fosse venuta voglia di raggiungermi».
Si alzò, afferrò la scatola dei biscotti e ne addentò uno in silenzio. Io e Vera ci scambiammo un’occhiata accigliata; allontanai la scatola dalle mani paffute di Carmen, che non fece nessuna resistenza. «È la bile nera la causa della melanconia. Lo ha detto Ippocrate. L’anima è nelle viscere.»
«Lo so,» ribatté lei deglutendo «me ne accorgo a ogni colica.»

Ci spostammo sul divano, che era lungo e comodo. Vera mi guardò e disse: «Non so tu, Agnese, ma io sono a pezzi. Da Roma a qui non è una passeggiata». Poi tirò fuori dalla tasca del piumino una boccetta e ingollò due pillole. Mi girai verso Carmen, già scivolata nel mondo dei sogni, la coprii con un plaid di pile arancione e mi stesi anch’io, con una coperta e un cuscino di ciniglia. Vera sistemò i suoi quaranta chili striminziti su una poltroncina e bofonchiò un’ironica buonanotte sbattendo le palpebre fino a chiuderle del tutto.
Ci addormentammo così, tra la puzza di fumo e la luce artificiale del camino, mista a quella grigia dell’alba che cominciava a filtrare dalle tende delle finestre.

Brano corrente

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