Se i documenti che, finora, abbiamo potuto trovare presso gli archivi, sono in numero limitato, più abbondante è la pubblicistica che ci riferisce sull’emigrazione dei nostri valligiani in Gran Bretagna; abbiamo già ricordato uno scritto di Lucio Sponza; egli, inoltre, ha dedicato agli emigranti valtaresi buona parte del suo volume Italian Immigrants in Nineteenth-century Britain: Realities and Images, così come all’emigrazione bardigiana è dedicato il volume di Colin Huges, Lime, lemon & sarsaparilla – The Italian Community in South Wales 1881-194YI; «fino a poco tempo fa – è scritto nella presentazione – sembrava che ogni città e ogni villaggio nel
Galles del Sud avesse almeno un caffè italiano nella sua strada principale i cui proprietari venivano soprattutto dalla Val Ceno, dai dintorni di Bardi. I loro nomi sono famigliari agli abitanti del Galles del Sud: Rabaiotti, Berni, Carpanini, Ricci, Fulgoni, Sidoli, Resteghini, Bracchi (forse le famiglie pioniere) e molti altri»22; in realtà, nel testo si parla anche di numerose altre famiglie: Antoniazzi, Assirati, Basini, Cavacciuti, Conti, Porelli, Zanelli, ecc.: è il racconto delle piccole – grandi storie di gruppi di famiglie dei nostri emigrati, storie che hanno, spesso, un significato che va oltre gli episodi narrati, per concorrere a delineare il quadro complessivo del processo migratorio.
Si può, perciò, concludere questa sezione dedicata alla nostra emigrazione in Inghilterra con la storia di un’altra famiglia, attraverso tre generazioni di emigranti, passati per Francia, Stati Uniti e Inghilterra, una famiglia di gelatai, provenienti da quello che è, forse, il più tipico luogo di origine di questa categoria dei nostri emigranti, Setterone; ce la offre, avendola scritta con la vigile collaborazione di auntie Mary, memoria vivente della famiglia, Irene Frederick.
Prima generazione
Antonio Federici nacque nel
TI papà di Antonio avrà certo faticato ad allevare la sua numerosa famiglia ma, man mano che i primi figli crescevano, cercavano di essergli d’aiuto; fu allora che in Antonio maturò l’idea di emigrare; a sedici anni la sua prima avventura fu in Francia con altri italiani; era il quarto dei figli maschi, ma era stato il primo della famiglia ad emigrare.
Lavorava come garzone da muratore; lavorava bene e sodo, tanto che il suo principale lo retribuiva come un adulto; sembra che abbia resistito per sei mesi ma poi, non curandosi per risparmiare e mandar a casa i soldi, cominciò a deperire.
In quel periodo suo padre aveva comperato un campo per poter seminare un po’ più di grano per sfamare i figli. Avere un campo in più era una conquista per debellare la povertà. I poderi in pianura, allora, non si sognavano neppure! Agostino venne a sapere dei sacrifici che suo figlio faceva e lo richiamò a casa.
Dopo la prima esperienza di emigrazione, Antonio aspettò un paio di anni perché i genitori erano ancora preoccupati per la sua salute, ma poi si decise e partì per l’Inghilterra; avrà avuto circa diciotto anni e si era alla fine del XIX secolo.
C’erano a Warrington nel Lancashire, nel nord dell’Inghilterra, dei compaesani, i Manfredi, e altri, che avevano aperto un varco; così, trovò, presso di loro, un lavoro come gelataio. Continuò per alcuni anni. Nel frattempo incoraggiò i suoi fratelli a raggiungerlo, per essere assunti da altri datori di lavoro, sempre nel campo della produzione e della vendita dei gelati.
C’è da precisare che emigrare in Inghilterra era, allora, abbastanza facile, soprattutto rispetto allungo viaggio necessario per raggiungere gli Stati Uniti, ma il lavoro non era garantito, ed è per questo motivo che molti si mettevano a lavorare in proprio.
In quel periodo non si socializzava, né c’era il desiderio di integrarsi con la popolazione locale. Si lavorava, si mangiava, si dormiva. Erano lì per procacciarsi il vitto, per tornare al proprio paese e comprare terra e casa. Imparavano una manciata di frasi fatte, sopratutto per vendere i gelati: Two cornets? A cup-full? A scoop? Two scoops? Fill the bowl? To the top? Hal/full? A ha’penny one? A penny’s worth?23.
Soltanto Alberto, dei fratelli, non andò in Inghilterra; preferì gli Stati Uniti.
La famiglia Federici lavora bene e si instaurò una certa rivalità tra Frederick’s (il nome commerciale dei Federici) e Lewis’s (nome commerciale dei Manfredi). Arrivò il momento in cui fu necessario trovare nuovi spazi, e Frederick’s ice-cream trovò una nuova collocazione a St. Helens, un paese a pochi chilometri di distanza da Warrington.
Nel periodo invernale, a quei tempi, il lavoro dei gelatai era molto scarso. Si comprava poco gelato e non si poteva conservarlo senza freezer. Quindi, i gelatai dovevano trovare altre cose da fare. Oppure passavano un po’ di tempo nel loro paese di origine.
Durante una di queste visite in Italia, Antonio conobbe Giuseppina Cavalli, nativa di Caneso, un’altro villaggio dell’Alta Val Taro, non lontano da Setterone. Si sposarono nell’inverno del 1903, entrambi di 25 anni di età.
I Cavalli avevano attraversato l’Oceano ed erano approdati in America attorno nel 1882. Era stata la mamma di Giuseppina, Francesca Dughi, a prendere la decisione di andare in America; lei e Francesco, suo marito, avevano già quattro figli, tra cui Giuseppina, e Francesca non era contenta delle loro condizioni di vita; non avevano abbastanza terra da coltivare per mantenere la famiglia e non avevano mezzi per comperarne altra; Francesca persuase suo marito, meno intraprendente di lei, ad emigrare; in America nacquero altre due figlie: Maria (Meimi) e Caterina (Keidy).
Anch’essi, sia i maschi che le femmine, lavoravano sotto padrone nelle famiglie ricche, che per loro fortuna erano persone di buon cuore che, quando potevano, davano loro cibo anche da portare a casa per gli altri membri della famiglia.
Per tirare avanti e accumulare qualche risparmio, cercavano di svolgere anche un secondo lavoro; nei week-end, quando erano liberi dai lavori domestici, i maschi vendevano i giornali e le ragazze vendevano i fiori di carta che mamma Francesca aveva preparato.
Le ragazze andavano al ponte di Brooklyn, dove offrivano i loro fiori: «Please, buy my flowers only a /ew cents»; ci voleva molto coraggio, per quelle ragazzine, per richiamare l’attenzione dei passanti. Così, una volta, il fratello maggiore, più disinvolto, prese il mazzo di fiori della sorellina e li vendette per lei; se non ché, quando la sorellina, felice, tornò a casa, la mamma, tutta contenta perché aveva venduto l’intero mazzo, le disse che, il giorno dopo, avrebbe avuto il doppio dei fiori …
Dopo parecchi anni, la figlia maggiore morì all’improvviso e tutta la famiglia, sgomenta dal dolore, decise di tornare in Italia, dove Francesca morì, due anni dopo, a soli 50 anni di età, forse di crepacuore. Con i loro risparmi comperarono una casa a Caneso e della terra da lavorare.
In quei tempi, molti degli italiani in America, si erano avventurati nella gestione di piccoli ristoranti che poi hanno perfezionato, valorizzando la cucina italiana e i prodotti gastronomici. Ci sono stati tanti che hanno fatto amare l’Italia. Lasciamo stare le pecore nere!
Giuseppina era stata, dunque, da ragazza, in America; sposando Antonio si trovò di nuovo emigrata, questa volta in Inghilterra. Poiché parlava l’inglese, poté insegnare la lingua alle cognate che erano emigrate, anch’esse, in Inghilterra.
Si dice che avesse appreso, nei paesi anglosassoni, un buon sense of humor, che trasmise ai figli: Antonio e Giuseppina ebbero sette figli, quattro maschi e tre femmine; il primo nacque nel 1903 e l’ultimo nel 1917.
Antonio aveva riunito, a St Helens, i suoi fratelli; tutti insieme poterono realizzare il loro desiderio, quello di lavorare in proprio. L’unione fa la forza! Erano in quattro e così cominciarono, attorno al
Quando i fratelli si sposavano, mentre gli uomini vendevano gelati, le mogli spesso lavoravano a vendere dolciumi, pear-drops e mintballs, dal parlour di casa (il soggiorno della casa che dà sulla strada), forma di commercio chiamata lock-ups.
Quando le mogli avevano il pancione, «non stava bene» per il commercio e quindi venivano spedite a casa per il periodo necessario. Francesco nacque in Italia per questo motivo.
Le famiglie crescono, entrano le mogli e nascono i figli; e così si giunse alla divisione: prima si separarono due fratelli, poi ognuno andò per conto suo, sempre disponibili, però, ad aiutarsi nei momenti di necessità. Si lavorava tutti, in famiglia, impiegando mano d’opera esterna quando necessitava, specialmente nel periodo estivo; il guadagno non mancava.
All’inizio la produzione avveniva attraverso un processo lungo e faticoso. In un barile di legno veniva inserito un contenitore cilindrico di metallo, del diametro di circa
il gelato veniva confezionato con un mix di fecola, uova, latte e zucchero; si faceva ruotare, a mano, il contenitore e, nello stesso tempo, con una spatola, si staccava in continuazione la crema gelata dalla parete portandola nel mezzo del contenitore. Una volta pronto, si caricava il pesante contenitore su un carretto, tirato a mano o da un cavallo; per tutto il giorno il contenitore veniva portato in giro per le strade, distribuendo il gelato in piccole dosi.
In quelle zone c’erano molte miniere; il terreno era collinoso e, spesso, cedevole; i carretti erano pesanti da spingere su per le strade; talvolta accadeva che i bambini, conoscendo le difficoltà in cui si sarebbe trovato il gelataio, lo aspettassero, per aiutarlo a spingere il carretto e ricevere, per ricompensa, il gelato gratis! La meccanizzazione facilitò la produzione dei gelati. Ma non tutto filava per il meglio per gli affari e per la famiglia.
Per motivi di salute, Antonio fu costretto, nel 1913 , a vendere e a ritornare in Italia. In quel periodo scoppiò prima guerra mondiale (1914-1918). La salute di Antonio migliorava ma non poté ritornare in Inghilterra fino al 1920; nel frattempo erano nati Mattia e Maria, i figli più piccoli.
Tornarono in Inghilterra a scaglioni: prima Antonio con Agostino e Cecilia, poi partì Francesco con uno zio. Per ultima, partì Giuseppina, che dovette vendere la casa di Caneso, e i due piccoli: passò un altro anno prima che tutta la famiglia si potesse riunire di nuovo.
Da allora cominciò la loro vita ad Ashton in Makerfield, un borgo industriale del Lancashire, tra Manchester e Liverpool, che oggi conta circa 20.000 abitanti.
Antonio e Giuseppina forse facevano pena, loro, con sei figli dai 18 anni in giù, ai quali ripetevano la raccomandazione di non fare schiamazzi e di tornare subito a casa dopo la scuola: il loro sogno era di tornare un giorno ai monti natii.
L’Inghilterra, passato un breve periodo di prosperità, vide, nel dopoguerra, i guadagni industriali e gli stipendi in calo; i soldati tornati dalla guerra non trovavano lavoro. Nell’estate del 1921, c’erano più di due milioni di disoccupati e gli scioperi aumentarono. C’era disperazione tra la gente e, nel 1926, ci fu uno sciopero che durò sei mesi. Era il periodo della depression.
Non credo che i gelatai ne traessero tanti benefici; Francesco raccontava che era duro vedere padri di bambini piccoli guardarti con un’espressione che faceva pena, quasi supplicandoti di dare un gelatino alloro bambino e promettendo di pagare con il primo salario, una volta terminato lo sciopero. Succedeva, poi, che non si sentiva di addossargli un piccolo debito, che forse avrebbero faticato a pagare, non osando più guardarlo in faccia, avendo debiti più importanti da saldare; così gliene regalava uno dicendogli: «OK tutto a posto!».
Se, quando fu dichiarata la seconda guerra mondiale, i poliziotti avessero chiesto a quei genitori se i gelatai dovevano essere internati, sono certa che avrebbero detto di no. C’era tanta riconoscenza! Erano gli unici italiani nella zona e si dedicavano al lavoro per guadagnarsi il rispetto di tutti. E così fu!
Gli inglesi erano già più evoluti: anche le donne avevano più libertà. Potevano uscire con il marito o amiche al sabato e domenica sera. Si trovavano al Club o al Pub dove chiacchieravano con un bicchiere di birra; a quei tempi, il vino era per le élites. Cantavano e, se c’era un suonatore, ballavano. I locali erano piccoli; alle volte erano semplicemente case adattate per ospitare persone che volevano dimenticare il lavoro e i pensieri e lo facevano con 1’aiuto della birra. Tutto era lecito se non si esagerava. Erano da invidiare, le donne italiane? Alcuni dicevano: «moglie e buoi dei paesi tuoi».