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19 Marzo 2007 | Racconti d'autore

N°52-RACCONTI D’AUTORE

Pier Vittorio Tondelli “Un week-end post moderno”. Fuori stagione.

Con “Un weekend postmoderno”, Pier Vittorio Tondelli, scrittore emiliano di Correggio (Reggio Emilia), morto a soli 36 anni nel 1991, ha elaborato il suo “romanzo critico” sugli anni Ottanta, una lunga narrazione “a scenari” che racconta le mode e la musica, le nuove tendenze artistiche e letterarie, le scoperte, gli entusiasmi e la vitalità della provincia italiana in questo decennio.
Vi leggiamo alcune pagine tratte dal capitolo “Rimini come Hollywood”, in cui la vita e i divertimenti nella Riviera romagnola diventano il paradigma dell’Italia vacua e superficiale, spensierata e ottimista, di quegli anni fatali.

Fuori stagione

 Improvvisamente quella che è stata la più grande “città della notte”, una città che dai lidi di Ravenna al promontorio di Gabicce si estende per circa centotrenta chilometri, si spegne. La scia di luci e di bagliori accesa ininterrottamente per i tre mesi della stagione si smorza. I milioni di turisti che hanno vissuto la loro vacanza, le coppie che si sono formate e disperse e poi di nuovo ricic1ate, con­sumando le offerte della prima industria della riviera adriatica, quel­la del sesso, tornano a casa finalmente placate. I circa cinquemila al­berghi, i millecinquecento stabilimenti balneari, i centosessanta dan­cing o discoteche, i club sportivi, le scuole di vela, di windsurf, i cen­tri nautici, i settanta camping, gli aeroclub, i ristoranti, i bar, i negozi sul lungomare, chiudono i battenti, così come chiude il grande parco di divertimenti dell’Italia in miniatura, a Viserba.

La fauna che si osserva lungo Viale Ceccarini, per esempio, o lungo qualsiasi lungomare nelle cittadine dai nomi così splendida­mente turistici come Bellaria, Bellariva, Miramare, Rivazzurra, Ma­rebello, emigra e svanisce: i playboy con catene d’oro attorno al collo, ai polsi e alle caviglie; i culturisti dalla muscolatura ben oleata, con i capelli rasati a zero e le mascelle bloccate in espres­sioni scultoree, come fossero tutti in cima al Foro Italico; i ragazzini con gel e gomme e brillantine sui capelli, i freakkettini, i punkettari, i gay, i teddy boy, le ragazze abbigliate in modi sensuali come tante leonesse nella savana, le donne mature che slumano arrapate dai tavolini dei caffè; e poi i turisti stranieri, i tedeschi, gli svedesi, i francesi, i macho, i tipi da spiaggia, i conquistatori e le prede, i dominatori e gli schiavi; ognuno torna alla propria città, e la concentrazione eccitante e straordinaria dei tipi umani, delle abitudini e dei caratteri improvvisamente, con il sopraggiungere dell’autunno, si sfalda, come se la Bisanzio degli stili e delle mode entrasse an­ch’essa, insieme alla stagione, nel letargo invernale.

Ecco, la prima sensazione nel camminare attraverso . queste città di frontiera, così sospese fra il sogno e la realtà, fra l’illusione del divertimento, della festa, del piacere e il peso della vita quotidiana, è proprio questa: anche le cose, gli oggetti, le costruzioni, gli edifici, entrano in letargo, accordandosi al ritmo naturale del succe­dersi delle stagioni. In nessun altra città è forse possibile osservare così da vicino, e in modo tanto toccante, la vita delle cose, l’alter­nanza della materia come se possedesse, essa stessa, un nascosto ritmo biologico. Così, mentre il mare si fa grigio e si ingrossa e gli alberi perdono le foglie e gli uomini della riviera si rinchiudono in casa, anche le cabine, i battelli, le sedie a sdraio, i negozi, le serrande, gli infissi delle finestre, si chiudono in se stessi, offrendosi alla salsedine spinta dal vento, alle intemperie, alla pioggia, alla neve che le invecchierà allo stesso modo in cui invecchia i corpi de. gli uomini.

Quello che affascina della riviera adriatica, durante i mesi invernali, è dunque la scoperta della vita segreta delle cose e degli oggetti. In un primo momento, tutto ciò che era movimento e frenesia si acquieta e si placa. Un grande sudario di silenzio cala sulle città della costa, immergendole in un’atmosfera irreale e per certi versi metafisica: quelle lunghe file di cabine disposte in sequenze ordi­nate, dai colori pastello – assumono l’aspetto di un paesaggio d’in­fanzia, – però disertato, come se appartenesse a una stagione dell’e­sistenza ormai perduta, scomparsa, per sempre inghiottita dalla vita adulta. Gli edifici, privati dell’elemento funzionale umano, diven­gono misteriosi assemblaggi di altri materiali per altri uomini.

TI paesaggio invernale della riviera appare come lo scarto di qual­cosa di cui non c’è più bisogno e di cui si farà a meno per sempre. Una cabina scrostata dal vento freddo della burrasca è in sé molto più definitiva di un atto di morte. Parla di qualcosa che c’era, di un sole che l’aveva illuminata, di uomini o replicanti che l’avevano usata. Nessuno crederebbe che, al giungere della nuova stagione, al pari degli alberi, essa rifiorirà a nuova vita.

Dopo il primo momento di silenzio, a ben guardare, ecco rive­larsi i segni del brulicare delle nuove energie. Gli uomini della co­sta iniziano a scendere in spiaggia, a ripulire, riordinare, rifare, rico­struire. L’inverno diventa la stagione del restauro. Dietro l’appa­rente sonnolenza della spiaggia deserta, dietro le pareti degli alber­ghi sprangati, dietro i vetri delle finestre sigillati fra assi di legno, si svolge con fervore il lavoro di riorganizzazione. Non esiste quindi una vera morte della città: esiste semmai un periodo di stasi di un ciclo vitale analogo a quello di qualsiasi altro essere vivente. Ma quello che avvince del paesaggio adriatico fuori stagione è anche il suo presentarsi come un grande contenitore, vuoto e spoglio, in cui la fantasia può liberamente ambientare i propri sogni, ricoprire con le immagini e i ricordi le spiagge bagnate e sporche, innestare situa­zioni romantiche e solitarie in un luogo che invece è sinonimo di chiasso, confusione, calca, ressa.

In questi momenti – passeggiare teneramente abbracciati sul ba­gnasciuga, attendere l’alba infagottati nei sacchi a pelo, stare sem­plicemente a osservare l’ondeggiare di un tronco sbattuto dalla fu­ria delle onde – il paesaggio espande il sentimento ponendosi come confronto fra soggettività e una natura liberata dai vincoli funzio­nali in cui l’uomo l’ha imbrigliata.

TI fascino della riviera d’inverno può anche essere, per sensibilità più intellettuali e più fredde, analogo a quello di percorrere un pal­coscenico dopo la rappresentazione, quando gli attori se ne sono andati e le attrezzature sceniche sono state smantellate. È la curio­sità di vedere dietro le quinte, in questo caso, di capire le strutture emotive di una fra le più grandi finzioni dell’uomo-massa contem­poraneo: la vacanza estiva. È in essa, infatti, che è possibile rintrac­ciare l’unico proseguimento, nella contemporaneità, della medie­vale cultura carnevalesca. E quindi: l’adozione di linguaggi alterna­tivi a quelli dell’ufficialità (i gesti, il corpo, il sesso); la costruzione di un mondo alla rovescia (ribaltamento del giorno con la notte, vi­vere fra dancing, discoteche, caffè fino al mattino); lo sberleffo del­l’autorità e del potere (accantonamento delle preoccupazioni della vita quotidiana e delle leggi di convivenza sociale); l’esplosione delle intensità intime e dei desideri.

Rimini d’inverno, come qualsiasi altra città della riviera, è anche la visualizzazione straordinaria di una particolare nevrosi della cultura contemporanea: l’attesa. Attesa del nuovo, deI sogno, della vera vita. È in questo senso che film come I vitelloni di Federico FeIIini o La prima notte di quiete di Valerio Zurlini o, per certi versi, anche Fuori stagione di Luciano Manuzzi, sono ritratti di un paesaggio straniato, assunto a metafora dell’intera condizione umana: l’attesa del cambiamento, della liberazione dalla grigia vita provinciale, dalle ossessioni erotiche, da se stessi, daUa precarietà degli anni giovanili. Per questa strada si arriva fino al videoclip in cui Loredana Bertè interpreta la canzone di Enrico Ruggeri Mare d} inverno, attendendo spasmodicamente sulla spiaggia ghiacciata l’arrivo di un belIissimo principe azzurro: “Mare, mare, qui non passa mai nessuno a portarmi via …”

 

Lettura di Fulvio Redeghieri.

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