Pino Cacucci, scrittore bolognese (d’adozione) considerato l’italiano più messicano che ci sia, cita una frase di Harold Pinter: “Macchè New York o Parigi, quando voglio respirare cultura vera e rinnovare le energie intellettive, vado a Città del Messico”. Nei libri di Cacucci si trova tutto quello che c’è da sapere su questo paese e sulla sua capitale. Il Messico, per lui, è una via di fuga dal nostro deserto di emozioni, da seguire su una sgangherata corriera attraverso foreste e altopiani, incontrando la gente più imprevedibile. Contadini del Chiapas, vecchi indios saggi, allevatori di galli da combattimento: tutti contribuiscono a disegnare l’immagine di un Messico sornione, ma capace di sentimenti forti e sconosciuti altrove. Paese complesso, spiega Cacucci, “dove il caos apparente emana un’inspiegabile armonia, dove definiamo sbrigativamente ‘surreale’ o ‘magica’ una realtà multidimensionale” difficile da comprendere, per noi che viviamo in una sola dimensione spazio-temporale.
E’ proprio questo che viene in mente osservando la mole in marmo bianco del Palacio de Bellas Artes che incombe sul lato orientale dell’Alameda Central, l’ombroso parco situato nel centro di Città del Messico, metropoli che a prima vista potrebbe fare paura. Nello sterminato caos urbano dove convivono 20 milioni di persone alle prese – la maggior parte – con problemi di sopravvivenza, ecco magicamente spuntare questa armonica costruzione che è il tempio della cultura nazionale.
La mano che ha disegnato il Palazzo delle Belle Arti è italiana. Tra resti aztechi, edifici coloniali, musei e murales, lo Zócalo – il cuore della città – vanta tra le sue maggiori attrattive l’opera dell’architetto ferrarese Adamo Boari. L’incarico di costruire un nuovo Teatro Nazionale – questa la prima destinazione dell’edificio – fu affidato a Boari nel 1901, quando la pace imposta dal presidente-dittatore Porfirio Díaz consentì alla borghesia di pensare ai propri divertimenti. Prima di ospitare una fabbrica tessile, il terreno scelto era stato occupato dal convento di Santa Isabel. Da lì saliva il salmodiare delle monache, fluttuante sopra il sotterraneo e rigoglioso fondo azteco con i suoi riti e i suoi incubi. Durante la demolizione della torre del convento, vennero alla luce una pietra sacrificale con un serpente piumato, un cauahxicalli, simbolo musicale degli antichi abitanti e, risalendo nel tempo, una fontana di azulejos dell’epoca dei vicerè e la lapide di doña Catalina de Perralta, che donò il terreno su cui fu costruito il convento.
Come sempre in Mexico, l’armonia nasce dal caos. Tutto questo substrato ribollente di culture, di contaminazioni, aveva bisogno di un progetto grandioso per risalire in superficie all’alba del nuovo secolo, all’insegna della modernità e della pacificazione. Invece di restaurare il vecchio Teatro Nacional, che dal 1826 offriva a borghesi e aristocratici innamorati dell’Europa la musica di Rossini e i valzer viennesi, il governo decise di dotare la città di un nuovo edificio, dedicato principalmente all’opera, che fosse all’altezza dei teatri delle grandi capitali europee.
Boari fu incaricato del progetto perché ritenuto in quel momento il miglior architetto operante in Messico. Nato a Marrara, vicino a Ferrara, nel 1863, Boari concluse a Bologna nel 1886 gli studi in ingegneria civile iniziati all’Università di Ferrara. Tre anni dopo s’imbarcò con due amici per il Brasile, da dove inviò disegni e progetti per la prima Esposizione italiana di Architettura nel
Il Messico entra sempre di più nella vita di Boari, che finisce per stabilirvisi nel 1899. Disegna un monumento a Porfirio Díaz e, soprattutto, partecipa alla costruzione del Palazzo delle Poste (1902-07), che si presenta come una mescolanza di stili, veneziano, manuelino, plateresco, ed è la sua opera più importante dopo il nuovo Teatro Nazionale. Si occupa dei lavori di sistemazione del Palacio Nacional e della propria abitazione di Città del Messico, considerata il primo esempio di architettura moderna nel paese per i suoi muri lisci e la sobrietà di composizione.
Per preparare al meglio il progetto del gran teatro della capitale messicana, oggi Palazzo delle Belle Arti, Boari dal 1901 al 1904 riprende a viaggiare in Europa e Stati Uniti, alla ricerca dei migliori studi ed esempi di architettura teatrale. A Chicago frequenta la factory di Frank Lloyd Wright, caposcuola della tendenza organica e tra i massimi architetti del Novecento, dove disegna alcune planimetrie dell’edificio.
Nel
Nel 1930 il governo incaricò l’architetto messicano Federico Mariscal di proseguire i lavori adattando a nuovo uso l’edificio, che prese il nome di Palacio de Bellas Artes, pur rimanendo la sala concerti. Mariscal cambiò impostazione, passando dall’Art Nouveau all’Art Déco, che col suo purismo geometrico e i colori brillanti meglio rifletteva il momento postrivoluzionario che il Messico stava vivendo. Nel 1934, l’anno in cui il Palazzo delle Belle Arti venne inaugurato, i celebri pittori Diego Rivera e José Clemente Orozco realizzarono gli splendidi murales del secondo piano del foyer. Sulle immense pareti dei primi due piani avrebbero poi lasciato le loro opere artisti quali Rufino Tamayo e David Alfaro Siqueiros. Dal 1947 l’edificio ospita la più importante istituzione culturale del Messico, l’Istituto Nazionale delle Belle Arti. Oggi hanno sede in queste sale anche il Teatro del Palazzo delle Belle Arti, il Museo Nazionale d’Arte e il Museo Nazionale di Architettura.
Là dove l’Art Déco si sposa, nella decorazione, con elementi tipici messicani come le maschere di scimmia, di coyote, del guerriero aquila e i mascheroni maya del dio Chac, rimane qualcosa del passato remoto di México, che Boari per primo, col suo liberty indigenista trent’anni prima aveva cercato di evocare. Come lui stesso scrisse in un articolo un mese prima della sua morte, avvenuta il 22 febbraio
D’ispirazione classica è anche il Serbatoio dell’Acquedotto di Ferrara (1930-32) alla cui progettazione Boari collaborò una volta tornato in Italia. Pur risiedendo a Roma, mantenne stretti legami con la città estense. Pare, ma non è certo, che abbia supervisionato il progetto del fratello Sesto Boari su cui fu costruito nel 1925-26 il Teatro Nuovo di Ferrara, decorato con stucchi bianchi in stile tardo liberty. Concluse la sua vita come una sorta di padre nobile degli ingegneri e degli architetti italiani, accumulando diverse cariche e pubblicando articoli sul gran Teatro del Messico. L’ultimo atto fu la partecipazione al concorso per l’edificio della Società delle Nazioni a Ginevra nel 1927. Non vinse ma ottenne una delle nove menzioni onorifiche. In ogni caso, era già nell’Olimpo dell’architettura. Si misurò con nomi quali Le Corbusier e Hannes Meyer, mentre Victor Horta e Josef Hoffmann erano nella giuria del concorso. Non male, per il messicano di Ferrara.
A cura di Claudio Bacilieri. Lettura Francesca Sutti.