Cari ascoltatori, oggi vi presentiamo un artista forse poco conosciuto oltre il circuito delle gallerie d’arte e dei collezionisti, ma di sicuro interesse. Si chiama Carlo Ravaioli, è nato nel ’54 in un paese della bassa pianura romagnola, tra le colline e il mare, a cavallo delle province di Forlì e Ravenna. Campagna piatta, coltivata a grano, frutta e barbabietole da zucchero, con inverni nebbiosi ed estati calde. Il senso di immobilità che aleggia sui campi e le case di quest’angolo di Romagna pervade anche la pittura alla quale Ravaioli è arrivato alla fine di un percorso complesso.
Dopo aver frequentato i corsi di disegno anatomico presso l’Ospedale Rizzoli di Bologna, Ravaioli si è impiegato presso uno studio grafico di Ravenna. All’attività di grafico pubblicitario ha associato una sempre più intensa attività fotografica, finché nel 1995 – dopo avere sperimentato il disegno, l’illustrazione, il fumetto, la fotografia, la comunicazione visiva, la computer graphic – ha iniziato la difficile avventura della pittura.
La pittura – dice lui stesso – contrappone la materia alla crescente diffusione dell’immagine virtuale ed elettronica. Dunque dipingere significa un reale contatto con le cose, l’immersione nella materia, nel “peso” del vivere, mentre l’immagine virtuale è evanescente, fluttuante, leggera per definizione.
Allora, memore forse della lunga immersione nella virtualità, e nella velocità dei tempi pubblicitari, Ravaioli ferma la sua attenzione sulla lentezza, sull’immobilità delle cose e la fissità delle situazioni, prendendo a prestito per la sua idea di arte la pittura di Modigliani, Casorati, Carrà e le atmosfere stranianti di De Chirico.
I critici leggono nei suoi lavori un’immagine del vuoto: il vuoto inevitabile a cui approdano le cose quando cercano un senso, una direzione.
Questa è la domanda che vogliamo porre a Carlo Ravaioli che è qui con noi.
Intervista a Carlo Ravaioli.