Sono partito per l’Inghilterra, perché consigliato da amici che erano già lì. Eravamo tutti disoccupati. La difficoltà di trovare lavoro era notevole, e c’era poco anche da mangiare. Non posso dire che ci fosse la fame. Nemmeno durante la guerra, perché eravamo sfollati da mio zio, in campagna. Ma c’era poco.
Questi amici, che abitavano qui vicino, sempre a piazza Isei dove abito tuttora e dove sono nato, questi amici, tutti gli anni, venivano a casa per le ferie, e ci dicevano che là, si stava bene. Che guadagnavano, la vita era serena e che erano benevoli con noi del Nord. Eravamo partiti con un contratto nelle fornaci, ma dopo quattro anni, si fu liberi di scegliere un altro lavoro. Così, lasciai qui la fidanzata, e partii il 30 maggio del 1955. Il viaggio durò 35-36 ore. Attraversai la Manica di notte, poi Londra, quindi a Peterbrough, un villaggio a 180 miglia da Londra. Ci alloggiarono in un ex campo di concentramento, però, c’erano tutti i servizi.
Erano capannoni di lamiera, con dieci lettini. Ognuno ave¬va un armadietto, c’era un piccolo bagno e il riscaldamento di notte, anche d’estate, perché di notte, la temperatura scende. Chiedemmo alla direzione della fornace di avvicinarci, e trovammo posto in un ostello. La mensa era gestita da un polacco che faceva gli spaghetti col ketchup.
Poi, abbiamo conosciuto un ucraino che aveva una casa da affittare, una casa completa di tutto. Ci andammo in quattro di Cesena.
Alla partenza, nel ’55, eravamo in tredici e l’anno dopo ne partirono altri, in un posto diverso dal nostro, ma so che torna¬rono a casa quasi subito, perché erano capitati in aperta campagna, e non c’era proprio niente.
La zona era piena di fornaci che usavano la creta raccolta lì attorno. Facevamo i mattoni e li spedivano ovunque, dal Belgio all’Australia. Dopo, è cambiato il sistema, e si cominciò ad usare il cemento per costruire case, non più mattoni, così, hanno rovinato tutto. Adesso, ci saranno solo due o tre fabbriche di mattoni.
Noi eravamo alla London Brick Company. Eravamo migliaia di italiani, quasi 3 mila, in maggioranza del Sud. Noi di Cesena, eravamo solo una ventina.
Nella casa nuova, eravamo in quattro e ognuno aveva il suo compito. Io facevo il cuoco. Andavamo a lavorare a piedi, poi prendemmo una bicicletta. Sono poi andato a lavorare in un’industria alimentare, la Farrow, e dopo, finii in ferrovia, alla British Royal Way. Dopo, i miei genitori hanno cominciato a dire che dovevo tornare, e che se non trovavo lavoro, era solo perché non c’ero mai. Così, nel luglio del 1962, sono tornato a casa.
In tutto, ci sono rimasto sette anni, ma sono stati anni importanti per me. Ancora oggi, ammiro la loro mentalità, la loro cultura. P gente rispettosa, civile e abbiamo imparato molto da loro. In fabbrica, ci davano del sir, “Buongiorno sir”, dicevano, e fra di loro, parlavano di problemi che noi non ci sognavamo nemmeno. Parlavano molto, soprattutto i giovani. Avevano 15 o 16 anni, e sapevano tutto, Se un domani andavano via di casa, sapevano come affrontare la vita.
Noi invece, no. Loro erano indipendenti. Alla catena di montaggio, c’erano anche le ragazzine. lo chiedevo perché, e ‘.oro mi dicevano che era perché lì si guadagnava di più che a :’are l’impiegata.
Allora, c’era lavoro per tutti. Il giornale diceva che c’erano X50 mila posti di lavoro e pochissimi disoccupati. Quasi tutti eggevano il giornale, dove si trovava di tutto. Persino il resoonto delle ore di sole, perché delle volte, si stava dei mesi interi, senza vederlo. Specialmente d’inverno, e dovevamo sempre uscire col gabardine. D’estate, quando piove, fa quella nebbiolina fitta fitta, e c’è un caldo afoso insopportabile, Que¬sto sì, mi dava fastidio.
Nelle ferrovie, era un lavoro diverso. Lavoravo con un inglese, un signore tranquillo che parlava con me dei suoi pro¬blemi. Il traffico ferroviario era enorme, perché lì, c’è un’altra mentalità e prendono tutti il treno, Ci davano anche dei biglietti gratis, e ho cominciato a viaggiare nell’interno. La campagna inglese è bellissima. Le case, piccoline, con la carta da parati. Adesso, l’hanno smessa. La carta si scoloriva presto, e allora tutti gli anni c’era da sostituirla, ed era una cerimo¬nia, un rito. C’erano negozi immensi, dove si andava a compe¬rare la carta.
Al sabato e alla domenica, andavano tutti a bere, ragazze comprese. Erano molto emancipate, disinibite e qualcuna ti veniva anche a chiedere di ballare. Allora, tu dicevi “I love you” e loro ridevano. Parlavano facilmente. Ho avuto una ragazza, quando ero lì. Si chiamava Mary Mane. Era di un villaggio lì vicino, e lavorava in una cantina, una specie di mensaa dove andavo a mangiare. Era cameriera, Ogni volta che passava davanti al mio tavolo, mi guardava, e io la guardavo. Fora dis¬creta. Non era una gran bellezzà… perché lì, c’erano le bellis¬sime e quelle normali. Non è come oggi, che oltretutto si vestono meglio e si curano di più. Non avevano molta cura del loro aspetto fisico, dell’eleganza, mentre io, da buon italiano, ci tenevo. Mi facevo confezionare gli abiti, quando tornavo qui. Avevo un vestito di principe di Galles… me l’ero fatto prima di partire, Ricordo che allora andavaa di moda.. Allora me lo feci e poi partii. Avevo solo due vestiti, non è che avessi molta roba! Lo mettevo solo per andare a ballare, ma notavo che li, nessuno portava il principe di Galles. Una volta, ci fu un inglese con cui ero in confidenza, che mi disse: “Ti sei messo il vestito dei contadini!”
Perché lì, lo portano gli uomini di campagna, i proprietari. Loro, invece, usavano stoffe grigie o blu. Quando venni inItalia., lo regalai ad un amico.