Finale Emilia è una bella cittadina della bassa modenese, proprio lì all’incrocio delle tre province di Modena, Ferrara e Bologna. Per secoli è stata chiamata la Piccola Venezia degli estensi perché il fiume Panaro, che dal secolo XIII al XIX attraversò la città, arricchendola di canali e canalini ne favorì, con la navigazione commerciale e militare, lo sviluppo e caratterizzò, con piene ed inondazioni, la vita degli abitanti.
Nel 1402 la cittadina fu arricchita di un imponente castello, il Castello delle Rocche che il marchese Nicolò III d’Este affidò per la costruzione all’architetto Bartolino Ploti da Novara. Situato al centro della città, il castello era fiancheggiato su un lato dal fiume Panaro, mentre gli altri tre lati erano circondati da un fossato. Adattato a residenza degli Estensi con interventi del 1425 dell’architetto Giovanni da Siena, divenne proprietà comunale nel 1864 e fu sede, sino alla metà del Novecento, delle carceri mandamentali. Dopo secoli di dominio Estense, Finale Emilia ottiene nel 1779 il titolo di Città da Francesco III duca di Modena. Finale cambia il suo ruolo di importante città d’acqua, con la deviazione del fiume Panaro, avvenuta alla fine del 1800. L’agricoltura diventa allora cardine delle attività economiche locali e tale rimane sino agli inizi degli anni 70 con la conversione a centro industriale. Come tutto il territorio estense da Ferrara a Modena, il nome di Finale Emilia è legato alla storia dell’ebraismo del nord Italia. I primi israeliti arrivano a Finale a metà del Cinquecento, si dedicano perlopiù all’attività commerciale e diventano gestori del banco degli usurai. Il loro numero aumenta di pari passo con l’importanza assunta nell’ambito dell’economia locale: sono già un centinaio nel ‘600, duecento fine del secolo successivo. I finalesi cominciano a guardare con sospetto e diffidenza questi facoltosi uomini d’affari, divenuti in breve tempo proprietari delle più belle botteghe del paese.
Nel 1736 a Finale Emilia, come in molte altre città abitate da ebrei, venne istituito il Ghetto, un muro che circondava la zona abitata dalla piccola comunità israelita e che era inframmezzato da tre porte: una più grande adibita al passaggio dei carri e due più piccole per i pedoni. L’istituzione del ghetto, costringe tutti gli esponenti della comunità a trasferire le loro abitazioni e attività commerciali in quest’area. Dal ghetto non si poteva uscire la notte e, dopo la restaurazione del 1814, agli ebrei fu proibita la frequentazione delle scuole pubbliche e la circolazione per strada in ore stabilite. Il muro viene poi abbattuto nel 1859.
A Finale Emilia c’è un piccolo cimitero ebraico. Gli ebrei non potevano seppellire i loro morti all’interno del ghetto ma erano costretti a farlo al di fuori delle mura. I funerali si svolgevano talvolta di notte per non urtare la sensibilità dei cristiani e seguivano in ogni caso un percorso defilato. Caduto in uno stato di deplorevole abbandono, il cimitero ebraico è stato restaurato a partire dal 1987 lavori che non hanno impedito il verificarsi di numerosi atti vandalici, il più grave dei quali, nel 1992, ha portato alla distruzione di quattro tombe.
Oggi il cimitero è meta di visite guidate e, sulle 57 lapidi riportate alla luce, è possibile leggere distintamente i nomi dei defunti scritti in caratteri ebraici e aramaici. Il cimitero non conserva le spoglie di colui che può essere di gran lunga considerato il figlio più illustre della stirpe di Davide a Finale. La vita avventurosa di Rubino Ventura è stata ricostruita, con dovizia di particolari, da una biografia di Maria Pia Balboni intitolata “Ventura. Dal ghetto del Finale alla corte di Lahore”. Nato a Finale nel 1794, il nostro eroe si procura molto presto l’ostilità dei gendarmi finalesi a causa delle sue simpatie napoleoniche. Più volte imprigionato nella Rocca, nel 1817 decide di espatriare e assume l’identità di Jean Baptiste Ventura. Nel volgere di pochi anni compie una sfolgorante carriera militare: diviene Colonnello dell’esercito persiano e poi Generale comandante della Guardia Reale di Ranjit Singh, Maharaja del Punjab. Accumulata una grandiosa fortuna, torna in Francia dove il Re Luigi Filippo gli conferisce la decorazione di Grand’Ufficiale della Legion d’Onore. Su sollecitazione dell’amico Ignazio Calvi che aveva reincontrato a Parigi, nel 1842 invia a Finale 3000 lire modenesi in occasione dello straripamento del Panaro. Muore a Toulouse all’età di 64 anni, senza aver mai rivisto il suo paese natale.
E concludiamo questa storia di Finale Emilia, parlando di un piatto tradizionale locale di chiara provenienza ebraica: la sfogliata o torta degli ebrei, di cui parleremo più approfonditamente nella sezione Sapori d’Italia. Questa famosa sfogliata ha radici molto antichi e si dice sia la torta salata che i Turchi chiamano “Burek”, importata a Finale dalla famiglia ebraica dei Belgradi. La comunità giudaica ha custodito gelosamente il segreto della ricetta per lungo tempo. Solo grazie a Giuseppe Alinovi, ebreo convertito, anche i cristiani ne sono venuti a conoscenza. La sfogliata, detta anche torta degli ebrei, è un impasto di farina, burro, strutto (originariamente si usava il grasso d’oca visto che gli ebrei non possono consumare maiale) e formaggio. La si trova nei bar del centro e in alcune panetterie nel periodo invernale, soprattutto in quello dei morti, ma, una volta all’anno, l’8 dicembre in occasione della festa dell’Immacolata viene cucinata in piazza e offerta gratuitamente a tutta la cittadinanza.
A cura di Marina Leonardi