“Imolians”, ossia “imolesi da esportazione”, si chiama la rubrica de “Il Nuovo Diario Messaggero” dedicata agli imolesi che vivono all’estero, da cui abbiamo tratto la storia di Nicola che vi leggiamo in questa puntata. A raccogliere queste vicende di emigrazione, raccontate in prima persona, è Maria Adelaide Martegani.
Anche questa è una storia di “Imolians”, ossia di imolesi all’estero, che si raccontano sul sito del Nuovo Diario Messaggero di Imola, cittadina a una trentina di km da Bologna.
Un imolese a Honolulu… decisamente alcuni di noi lo hanno un po’ invidiato, quando abbiamo ricevuto la sua storia… Honolulu è la capitale delle Hawaii, il 50° degli Stati Uniti d’America, sull’isola di Oahu. Spiagge ampie, palme ombrose, clima tropicale, atmosfera rilassata. Il nostro imolian si chiama Nicola Xella, alle Hawaii non è in vacanza, ma…. Lasciamo a lui il racconto.
Mi chiamo Nicola, “X” per gli amici; sono nato a Castel San Pietro (come quasi tutti gli imolesi della mia generazione) e sono cresciuto a Imola.
Quando sono a casa, amo andare d’estate al Parco Tozzoni, o passeggiare alle Acque, prendere un gelato in viale Dante, salire con la bici sui Tre Monti o in ValSenio, girare in moto sulla Montanara, andare al mare in Riviera. Fare le vasche per il centro, una cioccolata calda al bar o una birra al pub, all’occasione. Fin qui tutto normale.
Piccolo particolare: da un anno e mezzo vivo a Honolulu e studio alla University of Hawaii. Torno a Imola solo per Natale e per le vacanze estive e quindi quanto sopra elencato… per la maggior parte dell’anno è per me solo un ricordo.
Ogni imolese che va a vivere all’estero ha un storia particolare alle spalle, come questa interessantissima rubrica dimostra. Anche la mia storia è particolare, me ne rendo conto. A 19 anni ho preso un aereo, due valigie in mano e sono andato a vivere a quasi 180 gradi di longitudine da tutto quello che conoscevo. Non male, per un imolese fresco di liceo scientifico. Imola è una mamma protettiva dalla quale si fatica a trovare il distacco. Ti cresce, ti culla in un perfetto paradiso di vivibilità e medio benessere, di tranquillità, di accessibilità. Conosci tutti e tutti ti conoscono; noiosa quanto comoda, piccola, affascinante e claustrofobica, adatta a coltivare sogni di fuga che, nella maggior parte dei casi, finiranno dimenticati nel proverbiale cassetto.
Il mio sogno invece aveva ali, o meglio pinne, abbastanza forti da portarmi così lontano. La passione per il nuoto mi ha portato negli anni a discreti risultati nella specialità della rana (medaglie e titoli ai Tricolori giovanili, la maglia Azzurra e la finale agli Europei Juniores 2004, un quarto posto ai Nazionali assoluti 2005), ma mi ha anche messo davanti all’incompatibilità del sistema scolastico italiano, tanto alle scuole superiori quanto, soprattutto, all’università, con lo sport ad alto livello. Finito il liceo, conscio di non poter più contare sulla comprensione di (alcuni) professori e personale (terrei particolarmente a ringraziare il preside Silverio Scardovi e i professori che per anni mi hanno sopportato!), la mia unica possibilità per conciliare nuoto e studio erano le università americane.
Così entrai in contatto con l’allenatore di nuoto della University of Hawaii, che mi offrì una borsa di studio completa per il college, a patto che nuotassi per la sua squadra. All’inizio fui indeciso se accettare: a casa avevo tutto… famiglia, amici, un’ottima squadra (l’Imolanuoto, che mi ha cresciuto fin da piccolo), la possibilità di guadagnare qualche soldo con il nuoto, magari entrando in un corpo militare; avevo anche appena cominciato ad uscire con una ragazza… Lasciare tutto per andare da solo a vivere in mezzo a sconosciuti, in un’isola del Pacifico, senza nessuno che parli la tua lingua… non è una scelta facile a 19 anni. Ma forse a 19 anni si è anche abbastanza folli per inseguire il proprio sogno, per quanto alto sia il suo costo.
Il costo sono i momenti di solitudine, di nostalgia per una terra natìa a cui sei forse troppo legato, la difficoltà a reinserirti nella vecchia squadra ogni estate, lo smarrimento di tornare a casa e vedere come tutto cambia e va avanti nonostante la tua assenza, il dover rinunciare ad affetti e persone che spesso neanche capiscono. Ma in quei momenti, quando davvero tutto ciò arriva a soffocarmi e sembra non valerne la pena, c’è un ricordo a cui mi aggrappo: ricordo una mattina di agosto, in piscina a Imola, quando trovai un mio vecchio amico che era andato a lavorare fuori Imola per un anno ed era tornato, avendo trovato impiego vicino a casa. Ci mettemmo a ricordare quando, a 15 anni, suonavamo in un gruppetto di musica hardcore melodico (punk-rock). Una nostra canzone diceva: “Someone will tell you life is too short so you should become a fucking clerk” Ridendo amaramente, il mio amico disse: “Vedi X, alla fine lo sono diventato, quel f…to impiegato”. Ripensai a tutti i pomeriggi passati ad immaginare una vita lontano, fatta di sole, di oceani, di surf, di musica. Lessi nei suoi occhi che io avevo la possibilità di andare a vivere quel sogno e in un certo senso il dovere di cogliere l’occasione di una vita. Due settimane dopo ero a Honolulu, sperduto come mai prima.
A un anno e mezzo di distanza, ancora non me ne pento, anche se studiare e allenarsi insieme è duro: il mio obiettivo è cercare di conseguire una doppia laurea in Economia e Scienze Politiche, visto che il sistema americano lo permette (se uno ha voglia di darsi da fare!)
Aloha, Nicola
Lettura di Fulvio Redeghieri.