9 dicembre 2010
Con il ritmo lento di una ballata, Francesco Guccini, cantautore e scrittore, racconta in un volume uscito a luglio da Mondadori le tappe della sua geografia esistenziale, partendo dalle sue radici, dal mulino di Pavana, borgo sull’Appennino tosco-emiliano, fino alle sue due città, Modena e Bologna, passando attraverso il bosco, il fiume, la montagna, fino ad arrivare ai concerti e al successo nel mondo della canzone. Ci voleva, forse, il suo 70° compleanno per vincere la naturale ritrosia e indurlo a scrivere questo libro a quattro mani con il modenese Alberto Bertoni, che ha curato la parte dedicata al Guccini cantautore. Vi leggiamo l’inizio di questa narrazione che ha il passo avvolgente della “fola”, del racconto che sa di magia.
Il mulino
Mi sono chiesto tante volte se quelle cose buonissime che mangiavo al mulino dei nonni paterni (che so, il coniglio arrosto cotto nello strutto sulla stufa economica, i funghi fritti, il prosciutto del maiale di casa affettato di coltello, la salsiccia sott’olio, il formaggio sardo, il pane fatto in casa nel forno a legna una volta alla settimana, i tortellini di Natale e tante altre cose) mi piacerebbero ancora, oggi.
Non so rispondere, perché tutto è avvolto in una specie di nostalgia, che è poi quella dell’infanzia e dell’adolescenza, della vita quotidiana per i primi cinque anni di vita e per i Natale, Pasqua e i lunghissimi straordinari mesi delle successive vacanze estive.
Perché il mulino, il MIO mulino, il mulino del bisnonno Francesco detto Chicón era, ed è ancora oggi, nonostante non si macini più, un luogo mitico.
È un edificio isolato, concresciuto dal primitivo blocco unitario con aggiunta di vari edifici adatti alle diverse necessità, la stalla per un cavallo o un somaro e uno stalletto piccolo per un maiale, di sopra un fienile (la cavanna), di lato il pollaio (gallinaio), stalletti per i conigli (conìoli), un camerone per attrezzi di vario tipo e vari usi e un sistema a carrucola per arrotare i coltelli. Attraversavi una strada (ora asfaltata) e c’era il pozzo per l’acqua (in casa, ovviamente, non c’era acqua corrente); attorno orti per l’insalata, i pomodori (con cui facevano, a fine estate, la conserva), le cipolle, i piselli, il prezzemolo, il basilico, campi per le patate, il granoturco e i fagioli, altri campi per i ciliegi (e con le ciliegie facevano marmellate), i meli (e le mele da inverno, a mucchi, profumavano le camere da letto), i peri, le noci, le susine, i fichi. Appoggiata al muro, qualche “vidara” (pergola) di uva americana.
Nel poderetto di fianco il contadino coltivava il grano; due mucche ci fornivano due fiaschi di latte al giorno, con la panna facevano un panetto di burro (ma i nonni, alla toscana, preferivano cucinare con l’olio). Nel fiume c’erano i pesci (anche i gamberi, diceva mio padre, ma dopo la costruzione negli anni Venti della diga a monte, erano scomparsi). Nel castagneto c’erano castagne e marroni, la macchia dava la legna da ardere e le fascine per il forno e accendere il camino (perché, ovviamente, non c’era il riscaldamento); a stagione, nei boschi, si trovavano i funghi, porcini (ciupadelli), òvoli (cocchi, ma adesso non se ne trovano più perché i boschi sono sporchi), rùssule (morelle), galletti, poi fragole (frole), mirtilli (pignatini).
A fine estate vedevi le enormi ceste di fagioli e le grandi intelaiature di pali (il bàggiolo) splendenti del giallo delle pannocchie di granoturco messe al sole a seccare.
Comperavano olio, pasta secca (quella fresca la facevano in casa) e vino, toscano per tutti i giorni e qualche bottiglia di Trebbiano frizzante per i dolci delle feste. Ogni sabato si andava dal macellaio (a piedi, un chilometro, ma allora si andava dappertutto a piedi) per comprare la carne per il brodo e il lesso della domenica (solo da adulto ho mangiato la bistecca o la fettina). Comperavano, ogni tanto, una forma di formaggio sardo (abitudine presa in Sardegna dagli operai stagionali che vi andavano a fare il carbone di legna), qualche sarda sotto sale che, disliscata e lavata in acqua e aceto, veniva messa a strati in una vaschetta di vetro con olio, prezzemolo, origano (lo si trovava a ciuffi lungo il fiume) e aglio primaticcio. A volte un po’ di cioccolata (“per cal ragazzo” che ero poi io); per Natale apparivano qualche arancia e qualche mandarino.
Era un mondo autosufficiente. Non c’era radio (solo alla metà degli anni Cinquanta i miei genitori regalarono ai nonni una piccola radio vinta coi premi della Cooperativa Postelegrafonici) e naturalmente non c’è mai stata la televisione. C’erano poche luci, nulla attorno, rare sui monti. Ovviamente non c’era il bagno, ma almeno la latrina, un buco tondo in mezzo a una lastra di marmo in diretta comunicazione col pozzo nero, era in casa, anche se il suo uso neIla brutta stagione per uno già abituato agli agi della città era difficoltoso. D’estate c’era il fiume. Se si esclude il freddo invernale agghiacciante (tolta la cucina), con l’acqua che a volte gelava nelle brocche delle camere da letto (ma ci si abitua a tutto), gelo mitigato dal “prete” con lo scaldino con le braci, o da un mattone scaldato a fuoco del camino o l’acqua bollente versata in un bossolo di cannone lasciato dagli americani e saldato in bocca e ricoperto da un panno, tutti infilati sotto le coperte, le nevicate che vincevi a forza di pala per aprirti le strade verso il paese (la rotta), era un mondo perfetto, a sé bastante, autonomo.
Il mulino che ho vissuto io è a quattro piani; cinque, se consideriamo l’antro misterioso e buio del sottotetto, il “tassello morto”. Si parte da sottoterra; qui dovete dimenticare il mulino a ruota esterna verticale del “mulino Bianco”, a far girare le macine è una ruota orizzontale a catini che, spinta dall’acqua (sfrutta il salto dal bottaccio soprastante e la pressione di una condotta forzata), prilla come una trottola in senso antiorario e fa girare un asse in legno a tronco di cono stretta attorno a un asse di ferro inchiavardato alla macina mobile (la macina di sotto è fissa) al piano di sopra, il piano del mulino vero e proprio, delle macine e dei palmenti, larghi e fondi cassoni in muratura che ricevono la farina. Accontentatevi, vi prego, di queste poche e forse oscure spiegazioni tecniche.
Era un complesso ancora arcaico, un mondo sopravvissuto così fino alla fine degli anni Cinquanta. Il mulino ad acqua della montagna pistoiese era un castello di carte, una cosa improbabile, tenuta in piedi da poveri accorgimenti tecnici, a volte geniali nella loro semplicità, eppure funzionava, e funzionava così da secoli. Venivano a macinare, secondo stagione, grano, granoturco, “roba nera” (cereali minori per i pastoni degli animali). Ad autunno inoltrato, per tutto l’inverno, cominciava la stagione delle castagne. Venivano anche da località lontane, con muli o somari (e una volta una mia prozia si prese un calcio in uno stinco, da un mulo). Entravano con le bestie anche nel grande ingresso, “l’androne”, e lì scaricavano i pesanti sacchi di roba sulla “basculla”, l’ampia bilancia sulla quale ero regolarmente pesato a ogni ritorno per le vacanze. Su un ritto di muro a destra delle scale che portavano al piano superiore, c’erano le tacche successive della mia altezza, da quella prima, nel maggio del ’45, alla vigilia del fortunoso viaggio a Carpi per avere notizie dei parenti della pianura, fino alla fine degli anni Cinquanta.
Venivano anche a piedi, con carichi di roba che sembrano oggi leggendari, anche un quintale, un quintale e mezzo, portati non da qui a lì, ma da località difficili e faticose anche oggi da raggiungere camminando. Pesi da portare fin giù, al mulino e dopo, a macinatura avvenuta, da riportare su. D’estate, stravolti dalla fatica, si asciugavano il sudore, si sedevano a riposare, parlavano e raccontavano storie di paese e paesi vicini, chiacchiere, pettegolezzi, accompagnati dal frusciare delle macine e dal tempo ritmico e secco della “battola”, che sbatteva a ogni giro sul piano della macina rotante e trasmetteva la vibrazione a un coppo di legno inclinato, facendo cadere il materiale da macinare nel foro circolare della macina di sopra. D’inverno entravano in cucina e si sedevano di fianco al camino, per scaldarsi. Qualcuno, quelli venuti da più lontano, accettavano un piatto di minestra. La casa era sempre piena di gente, di voci, di movimento. Ogni tanto veniva uno strano personaggio, vestito di stracci. Non entrava, si fermava sulla soglia e cominciava a recitare preghiere. “A i è al povretto!” si sentiva dire in casa. Una delle donne prendeva una pagnotta di pane e gliela dava. Questi la metteva in una bisaccia, finiva la preghiera, ringraziava e se ne andava. Non ho mai saputo da dove venisse, chi fosse.
Ma che mondo era? È difficile dirlo oggi, sembra di raccontare cose perse nel tempo, della civiltà contadina, allora di pura sopravvivenza, oggi scomparsa, di un Medioevo in buona parte rimasto anche se con la luce elettrica ma tirata al massimo risparmio (quante sgridate, perché leggevo a letto di sera! “A letto a s’ va per dormire, mia per legg’re!”). Con una moralità di lavoro e di fatica fisica inculcata per anni e per un certo periodo fatta mia. Era importante lavorare da sole a sole, era importante “portare” un carico, vangare una piana intera, segare con la falce fienaia (la frina) un campo di erba spagna, metterla nella “gòrgola” (un grande cesto di vimini a maglie larghissime) o nella “rete” (un sistema di pali e funi che si stringevano fino a formare un grande salsicciotto), caricarseli su testa e spalle e portarli alla “cavanna”. Era importante saper fare il “balzo”, vale a dire piegare una vecchia giacca in modo da fare una specie di cuscino per proteggere nuca e spalle e schiena dal peso portato. Era importante indossare una camicia bianca le domeniche d’estate, “spianare”, chi poteva, un vestito a Pasqua. Era importante corteggiare una sola ragazza, sposarla e vivere con lei tutta la vita, fino a morte. Queste e cento altre, tutte cose importanti, tutte perse e dimenticate nei gorghi del tempo. E i miei nonni, devo dire, erano benestanti.
Il mulino ad acqua ne ha, ovviamente, bisogno. A due passi scorreva (e scorre ancora, anche se si è molto affondato) il torrente Limentra (per noi “il fiume”), che si getta in Reno un chilometro più sotto, a Ponte della Venturina, in località chiamata, giustamente, “I due fiumi”. È incredibile il rumore che fa un fiume scorrendo; anche d’estate, quando se ne va calmo e tranquillo, per alcune notti tiene sveglia gente non abituata. Ora che non abito più al mulino ma mezzo chilometro più in alto dalla sponda sinistra, certe volte apro una finestra del piano di sopra e nel silenzio delle notti pavanesi lo sento distintamente andare.
D’inverno è spesso in piena e lì il rumore è assoluto, specie dei sassi, anche grossi macigni, che vengono trascinati dalla corrente e cozzano gli uni contro gli altri. Spesso si ingrossava tanto che lambiva la casa, situata a diversi metri dall’alveo. Una volta, nel ’38 (ma questo me l’hanno raccontato) un acquazzone fortissimo portò tronchi e ramaglie divelti a ostruire le gallerie di scarico della diga e l’acqua tracimò (vocabolo che conobbi prima che la televisione lo lanciasse per disgrazie recenti) e arrivò a valanga contro la casa spazzandone via un’ala, quella del pollaio, facendo saltare i pavimenti di due sale, inondando i sacchi di grano e di farina, riempiendo le macine e i palmenti di sassi e di fango, portandosi via metà di un ponte a duecento metri più sotto, lasciando nel fango dei campi attorno i cadaveri di molti animali e di una giovane donna. Un disastro, una tragedia che, anche se non l’ho vissuta personalmente in maniera misteriosa, ogni tanto sogno.