Nel bene e nel male il Festival di Sanremo offre ogni anno un’occasione per raccontare l’epoca e il paese in cui viviamo, tra bugie e verità. Dall’“Almanacco” che riassume tutte le edizioni dal 1951, con numeri, protagonisti e canzoni in gara, abbiamo scelto le introduzioni scritte dal giornalista Marino Bartoletti e dall’artista Renzo Arbore. Ringraziamo per la lettura Cesare Imposimato e l’associazione “Legg’io”.
Io e il Festival: Marino Bartoletti
Ci sono poche manifestazioni che, come dicono quelli che sanno parlare, sono uno specchio altrettanto attendibile del nostro Paese. Sanremo è stato (ed è) allegria e malinconia, euforia e amarezza, speranza e declino, gioia e tragedia, conservazione e progresso, giustizia ed errori, concretezza e fantasia. La nostra musica (salvo rare eccezioni di artisti che comunque hanno avuto il Festival come subliminale punto di riferimento) è passata tutta da lì: persino Francesco Guccini, che professionalmente sta a Sanremo come Bob Marley alla mazurka, quando vuole divertirsi fra amici intona “Vola colomba” – compagna della sua giovinezza – con la stessa ispirata grazia di un gorgheggiatore.
E proprio l’innocente “Vola colomba” – vincitrice del secondo Festival della storia, ma soprattutto accorato messaggio “politico” non da tutti capito per il ritorno di Trieste all’Italia – è la prova che Sanremo non è mai stato solo “canzonette”. Perché fra scarponi e tristezza, fra finestre spalancate e mamme che piangono, su quel palco si è cantato di tutto: ma proprio di tutto. Ogni tanto con qualche ammiccamento strumentale, ma tante volte con una profondità addirittura disallineata con la pigrizia del contesto generale: e allora ecco le canzoni sulla follia, sulla disperazione del lavoro perso, sulla mafia e la voglia di sconfiggerla, sul terrorismo, sulla violenza contro le donne e contro i minori, sull’omosessualità, sull’aborto, sull’emigrazione, sulla droga, sulla pena di morte, sull’ambiente, persino sulla corruzione politica.
E chi non se n’è accorto e pensa solo a un grande baraccone con pajettes, lustrini e televoto, probabilmente ha perso un’occasione che non esito a definire culturale. Perché la cultura va colta anche nelle sue manifestazioni apparentemente meno convenzionali, anteponendo perlomeno la curiosità alla puzza sotto al naso. Un grande musicista ha scritto: “Perché frequentare Platone, quando anche un sassofono può farci intravedere un altro mondo?”.
Sanremo siamo tutti noi: nella nostra a volte caricaturale, a volte umanissima e apprezzabilissima italianità. Sanremo sono anche coloro che dicono di non guardarlo (“più” o “mai”) e il giorno dopo ne parlano (e ora ne scrivono) come se – curiosamente – non se ne fossero persi neanche un secondo. Sanremo è scandalo e convenzione, regola ed eccezione.
Personalmente lo frequento da quando sono nato. Ho fatto in tempo ad ascoltarlo alla radio, poi a vederlo in tv, poi a bazzicarlo di persona per decenni con una passione, una curiosità, e in fondo una gioia, rimaste inalterate nel tempo (non per questo abbassando la soglia critica delle mie opinioni). Ci sono edizioni o canzoni di Sanremo che hanno letteralmente scandito la nostra vita. Alcune che l’hanno in qualche modo connotata (fra il 1968 e il 1969 quasi 10.000 bambine italiane vennero chiamate Deborah, con o senza “h”). Ci sono frasi di testi sanremesi che sono entrate nel linguaggio comune quando non anche nelle grammatiche e nei vocabolari. È un peccato non ripassarne almeno una volta la storia che, curiosamente, coincide in quasi totale sovrapposizione con quella dell’Italia repubblicana.
Qualcuno ha detto: “Non giudicare sbagliato ciò che non conosci, prendi l’occasione per comprendere”. Ecco, forse questa nostra piccola fatica potrebbe servire anche a questo: a far amare il Festival di Sanremo a chi non ha avuto l’occasione di conoscerne ogni valenza e a farlo amare di più a chi lo ha sempre amato.
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Io e il Festival: Renzo Arbore
Credo di essere l’unico che, a Sanremo, ha coperto (quasi) tutte le parti in commedia: e le avrei davvero interpretate tutte (senza quasi), se un anno non avessi “barattato” la conduzione con qualcos’altro.
Ma andiamo con ordine, scartabellando nei ricordi anche con l’aiuto di questo autentico libro di storia, prima che di musica, che il mio amico Marino Bartoletti ha dato alle stampe.
Il mio primo Sanremo è rigorosamente proprio… il primo Sanremo, quando a tredici anni mi ritrovai con tutta la famiglia attorno alla nuova radio acquistata da mio padre per ascoltare Nunzio Filogamo che, con tutta la sua grazia, annunciava il titolo delle canzoni facendone prima un delicato riassunto: “Una donna abbandonata riceve un misterioso e inatteso mazzo di rose e fra quelle spine riconosce il sentimento non sopito di chi ancora una volta le ha voluto ricordare il proprio amore. Di Testoni, Panzeri e Seracini, Grazie dei fiori: canta Nilla Pizzi”.
E fu così per tutta la mia adolescenza, fino a che un pugliese come me, volando nel cielo più blu, si mise alle spalle in un colpo solo tutte le colombe e tutti gli scarponi precedenti. Mio padre, con misurato disprezzo, definì quella canzone “futurista fra virgolette”. Io stesso forse non ne compresi subito la potenza rivoluzionaria, già sedotto com’ero dall’America e dal jazz: ma ci avrei davvero messo poco a capirlo, perché Domenico Modugno cambiò letteralmente la storia della musica italiana.
Ma la folgorazione vera e propria arrivò quando a metà anni Sessanta mi accorsi, assieme al mio socio Gianni Boncompagni, che a Sanremo, seppur facendosi largo fra qualche scoria del passato, era arrivato il beat: il nostro beat, la nostra musica, quella che io e lui cominciavamo a diffondere per radio. Mi bastò Caterina Caselli, futura signora Sugar, quando in coppia con Gene Pitney cantò “Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu”. E di lì a poco sarebbe arrivato pure Wilson Pickett con tutto il suo armamentario di ottoni e di Rythm’n Blues.
Dunque, in poco più di una dozzina d’anni ero passato dalla figura di radioascoltatore, a quella di telespettatore, a quella di divulgatore della nuova musica. E a Sanremo avevo cominciato ad andarci veramente: al punto che, nel 1968, diventai anche selezionatore delle canzoni in gara. E fu un Festival bellissimo con brani straordinari (dal primo, Canzone per te, di Sergio Endrigo, all’ultimo, La voce del silenzio, proposta da Dionne Warwick). L’unica amarezza fu il non poter ammettere Meraviglioso, proprio di Domenico Modugno, perché si sovrapponeva, col suo gioioso inno alla vita, alla tragedia di Luigi Tenco dell’anno precedente (che mi diede un dolore personale direttamente proporzionale alla mia amicizia con Luigi). Mimmo, credendomi il “responsabile” di quell’esclusione (in realtà io ero solo uno dei componenti della commissione presieduta dal maestro Carlo Savina), mi tenne il broncio per parecchio tempo.
Negli anni, oltre a seguire sempre Sanremo con immutata passione (anche come inviato del “Corriere della Sera”), feci ovviamente tante altre cose, televisive e non. Fino a che Gianni Ravera, lo storico patron del Festival, mi chiese se avessi voluto condurlo. Io gli risposi: “Salgo sul palco dell’Ariston solo se mi fai cantare”. E così fu. E col Clarinetto riportai in concorso, e credo anche in auge, la “canzone umoristica” che era stata in parte di Renato Carosone e, a Sanremo, del solo Gino Bramieri, tanti anni prima, con Lui andava a cavallo. Arrivai secondo dietro a Ramazzotti cantando di una “chitarrina” e di un aggeggio che fa “filù filù filù filà”. Ma soprattutto, per quanto mi riguarda, salendo su un palcoscenico – e che palcoscenico! – assolutamente senza paura, tanto mi sentivo leggero e a mio agio in quello che facevo.
Poi di Sanremo avrei parlato anche in una trasmissione televisiva di grande e rilassato successo, vestito da giudice assieme a Lino Banfi sui banchi di un improbabile tribunale. Ma questo non mi ricordo più se è passato o presente. Lo leggerò sul libro di Bartoletti.