14 giugno 2011
L’architetto di San Paolo Annalisa Fazzioli Tavares ci ha raccontato la storia della sua famiglia
Mia madre
Mia madre Mercede è nata a Mezzolara di Budrio, una ventina di km da Bologna, nel 1913, unica figlia di Augusta Galletti e Pietro Mota. Mia nonna Augusta si era trasferita a Bologna nel 1914 e nel ’16 aveva sposato mio nonno Pietro. Mia madre era dunque nata prima del matrimonio dei suoi genitori. Infatti, nel certificato di battesimo è segnata come figlia di Augusta Galletti e di padre ignoto, anche se la paternità di Pietro Mota non fu mai contestata. Mercede trascorse l’infanzia con i suoi genitori a Bologna, più con la madre che con il padre, proprietario di una società di autotrasporti e, per questo, spesso in viaggio attraverso l’Europa e l’Africa. Nel 1930 Mercede si iscrisse al Liceo Artistico di Bologna, oggi Accademia di Belle Arti. Era compagna di scuola di Luciano Minguzzi, che sarebbe diventato uno scultore molto apprezzato a livello internazionale, e allieva di Giorgio Morandi, da cui ebbe in regalo due incisioni e, forse, qualche piccolo disegno. Il suo insegnante di anatomia artistica era il medico Angelo Morelli. Mercede abbandonò gli studi nel 1934 senza diplomarsi, a causa della malattia di sua madre, morta di cancro nel 1936. Dopo la morte della madre, andò a vivere da sola in via Frassinago. Era una donna di idee molto moderne per il suo tempo, una vera artista.
Mio padre
Non so esattamente quando mia madre e mio padre Armando si siano conosciuti. Armando Fazzioli era nato Bologna nel 1908. Durante il fidanzamento, regalò a Mercede il famoso libro di cucina dell’Artusi dicendole d’impararlo a memoria, altrimenti non si sarebbero sposati. Si sposarono nel 1938. Non so se mia madre sapesse a memoria le ricette dell’Artusi, ma aveva imparato a cucinare molto bene. Armando studiava ingegneria all’Università di Bologna e per mantenere la famiglia insegnava in una scuola elementare a Tresigallo, in provincia di Ferrara. Nel 1940 è nata a Bologna mia sorella, Augusta Piera. Nel 1943 mio padre si è laureato in ingegneria meccanica, mentre mia madre, come tutte le donne del suo tempo, faceva la casalinga. Appena laureato, fu chiamato a lavorare nello stabilimento di Varedo (Milano) della Snia Viscosa, una delle prime industrie italiane del settore tessile, specializzata nella produzione del rayon. Erano tempi duri, tempi di guerra. La casa di Varedo era molto grande e consentì di ospitare, fino alla fine della guerra, la famiglia di Angelo Morelli, il docente di anatomia nell’Accademia di Belle Arti di Bologna dove la mia mamma aveva studiato. Durante il giorno Morelli, ricercato perché comunista, rimaneva nascosto a dipingere o a costruire piccoli oggetti di falegnameria e piccole sculture in argilla, cotte nel forno della cucina. Realizzò anche un presepe completo che regalò ai miei genitori per il Natale che passò con loro. Mio zio Ilario, fratello di Armando, e sua moglie Enrica si erano stabiliti in un’altra unità della Snia Viscosa a Magenta, sempre in provincia di Milano. In quel periodo, per mezzo di Morelli, mio padre e mio zio avevano conosciuto Carlo Gramsci, il fratello più giovane di Antonio Gramsci, l’intellettuale che fu tra i fondatori del partito comunista.
Il dopoguerra
All’inizio del 1946, la mia famiglia si trasferì a Torino, perché mio padre era stato mandato nello stabilimento Snia di Torino Stura. Morelli e i miei si separarono. Il 15 novembre di quell’anno sono nata io. I miei nonni paterni, che avevano trascorso il periodo della guerra a Bologna, vennero ad abitare con noi a Torino. Sempre nel ’46, mio padre ricevette l’offerta dall’imprenditore italiano radicato in Brasile Francesco Matarazzo, di stabilirsi, per un periodo di quattro anni, a San Paolo, in Brasile, per ristrutturare e dirigere una fabbrica di rayon. Mia madre voleva tornare a Bologna, ma di fronte alla situazione d’incertezza del dopoguerra in Italia, e all’interessante proposta di lavoro ricevuta da mio padre, rinunciò, acconsentendo al trasferimento in Brasile. Così, nell’agosto 1947, la nostra famiglia, compreso lo zio Ilario (destinatario di una proposta simile dallo stesso imprenditore) e sua moglie, ma senza i nonni, partì per il Brasile, portando con sé solo lo stretto necessario, perché tutti pensavano di ritornare in Italia, trascorsi i quattro anni.
Il Brasile
Mio padre e mio zio, entusiasti delle opportunità di crescita del Brasile, deciso di rimanere e d’investire insieme: costruirono un’industria tessile che avrebbe operato per una trentina d’anni e che ora, per ragioni che non conosco bene, non esiste più. I miei nonni paterni erano rimasti a Bologna, ma quando i figli decisero di rimanere in Brasile, nel 1953, li raggiunsero. Prima di partire, vendettero tutti i beni di famiglia: libri, quadri, mobili, i disegni della mamma e incisioni di Morandi. La mamma soffrì così tanto, per questo, che da allora non toccò più una matita o un foglio di carta da disegno. Si salvarono solo i mobili del Sette e Ottocento di mia zia Enrica Ghiglione, discendente di un garibaldino, Giovanni Battista Ghiglione, nato nel 1838, che partecipò alla spedizione dei Mille. Questi mobili partirono per il Brasile nel 1955. Tra gli oggetti di mia madre, ho trovato una lettera di Dino Grandi, che fu ministro degli esteri durante il fascismo e nel dopoguerra visse in Brasile. Mio padre morì nel 1975 e mia madre, che viveva con me, nel 1995. Mia madre era molto orgogliosa di me, diceva che ero un bravo architetto, una lottatrice. Desiderava che tornassi a vivere nella sua Bologna, ma sono rimasta in Brasile, come mia sorella. In compenso, mia figlia Paula, recuperando la storia della famiglia, è venuta in Italia per finire gli studi, si è sposata e vive da dieci anni non lontano da Bologna: a Soragna, in provincia di Parma.
Il Natale
Il pranzo di Natale si trascorreva in famiglia, con i nonni, gli zii, i genitori, mia sorella e qualche altro invitato. La mamma faceva la pasta per i tortellini, il ripieno e tagliava la pasta a quadretti. Io mettevo il ripieno nei quadretti e piegavo i tortellini. Mia zia faceva il tacchino con le patate. Il tacchino lo andavamo a comprare vivo dal “duca dei tacchini”. Il mio papà diceva che era duca veramente, ma io non ci credevo. La sua casa era molto sporca e aveva odori strani. Era di Napoli. Mi divertivo a tornare a casa con questo tacchino vivo in macchina. Poi il nonno gli dava della grappa e gli tirava il collo. L’albero di Natale mi sembrava enorme, forse perché ero piccola, e pieno di regali. C’era anche il famoso presepe fatto da Angelo Morelli durante la guerra a Varedo. Il pranzo non finiva mai e io guardavo i regali. Era una famiglia felice. Durante il pranzo il papà e lo zio parlavano di macchine tessili, a volte con un tono di voce più alto. Intanto, gli anni passavano. Nel 1964 mio zio portò dall’Italia un ragazzo di dodici anni che aveva adottato. Per me era finito il divertimento. Mia sorella si era sposata nel 1961. Ero rimasta sola.
Mio zio
Quando penso a mio zio Ilario, il fratello più giovane di mio padre, mi sembra di vedere un film di Monicelli. Era daltonico: scambiava il rosso per il verde e, nonostante questo, aveva la patente per guidare. Vedeva i prati di un colore tra il rosso e il marrone, e i cavalli verdi. Confondeva i nome delle persone. Se uno aveva come cognome Marmo, lo salutava così: buongiorno, dottor Granito! Tutta la sua vita fu un’inversione di fatti, di cose. Era socio di mio padre nell’impresa tessile che contava allora circa duecento dipendenti. Mio papà lavorava e lo zio era sempre in “viaggio d’affari”. Sposato con mia zia Enrica, non avevano figli. Durante i fine settimana uscivo più con gli zii che con i miei genitori. Mi portavano al cinema e poi andavamo a mangiare nei migliori ristoranti di San Paolo. Ero piccola quando con loro vidi per la prima volta “La Strada” di Fellini. Lo zio girava il mondo e aveva sempre belle cose da raccontarmi. Era irreverente e polemico con tutti, ma molto intelligente e amante – posso dirlo? – delle belle donne, soprattutto mulatte. Lo zio Ilario aveva studiato chimica pura all’Università di Bologna. Era molto competente in materia e fu tra i fondatori della Facoltà di Ingegneria Tessile di San Paolo. Era una persona impaziente e, come dicevo, cercava di stare in fabbrica il meno possibile. Preferiva insegnare e viaggiare. L’azienda che conduceva con mio padre produceva filo da cucire in poliestere. Aveva anche una tintoria – lui che era daltonico. Dopo la morte di mia zia Enrica nel 1977, lo zio si risposò nel 1979 con una signora russa che cucinava delle fantastiche aringhe nel latte con caviale. Peccato che il matrimonio sia durato solo due mesi. Quando suo figlio adottivo si sposò, rimase solo in casa. Morì nel 1994. Nel 1990 l’azienda era già passata a suo figlio. Mio zio è stato consigliere del Circolo Italiano e fece parte del Circolo Emilia-Romagna di San Paolo.