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26 Novembre 2015 | Racconti d'autore

Piccola storia di un fante italiano

Testo di Eraldo Baldini tratto dal volume “La collezione di cartoline della Grande Guerra nel Museo Francesco Baracca di Lugo” (a cura di Serena Sandri e Patrizia Tamassia, con la collaborazione di Daniele Serafini, Bologna, Bononia University Press, 2015)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Fulvio Redeghieri

Lo scrittore ravennate Eraldo Baldini racconta come ha ereditato la collezione di cartoline della Prima guerra mondiale raccolta da suo nonno Enrico, che a quella guerra sopravvisse. Le quasi 3.000 cartoline, catalogate a cura dell’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, sono oggi conservate ed esposte nel Museo “Francesco Baracca” di Lugo.

Mio nonno Enrico Baldini (1898-1977) fu soldato del 25° Reggimento di Fanteria, mutilato e decorato con la Croce al Merito nella Grande Guerra e Cavaliere di Vittorio Veneto. Rimase gravemente ferito a una gamba da una granata nella battaglia del monte San Gabriele.
Oggi quel monte si chiama Škabrijel ed è nel territorio della Slovenia occidentale, a 3 chilometri in linea d’aria da Gorizia. Durante la Grande Guerra fu una sorta di inespugnabile roccaforte austroungarica; l’Esercito italiano ne intraprese il tentativo di conquista a partire dal 2 settembre 1917. Per una decina di giorni si susseguirono attacchi, contrattacchi e soprattutto furiosi bombardamenti da una parte e dall’altra. Se ciò che mio nonno mi raccontava è preciso, lui venne ferito durante uno di questi, il giorno 11 settembre. Quel giorno, ci dicono gli storici, oltre 45.000 proiettili di medio e grosso calibro sconvolsero le postazioni e le fila italiane. La cima del monte venne persa e poi riconquistata dai nostri per nove volte, mentre la artiglierie di una e dell’altra parte sparavano quasi alla cieca nel mucchio, compiendo una vera e propria carneficina. Sul San Gabriele, in pochi giorni, persero la vita più di 17.000 soldati e innumerevoli furono i feriti.
Mio nonno fu uno di quelli; sul suo corpo straziato, mi raccontava, caddero e si ammucchiarono, via via, terra e corpi di morti e moribondi. Fu proprio quel macabro riparo, forse, a proteggerlo da altri colpi.

Un carissimo amico e commilitone di mio nonno di cui non ricordo il nome (se mai l’ho saputo: e dire che se io esisto lo devo anche a lui), un bracciante di Boncellino di Bagnacavallo che, rimasto leggermente ferito nei giorni precedenti, era stato portato a curarsi nelle retrovie, saputo della strage che si era compiuta sulle pendici del monte, quando la battaglia si placò ottenne il permesso di raggiungere la linea dei combattimenti con l’intento di accertarsi della sorte di quel suo amico e conterraneo a cui era fortemente legato. Vagò a lungo tra le trincee sconvolte, i mucchi di cadaveri uccisi dalle granate, dagli assalti e dal gas, chiamò, guardò centinaia di volti morti, spostò corpi. Un’impresa assurda, in quel carnaio. Così assurda che gli riuscì, come accade nei romanzi e qualche volta anche nella realtà, che a volte, lo sappiamo, supera la narrativa e l’immaginazione.
Trovò mio nonno che aveva una gamba maciullata e, senza aspettare (probabilmente sarebbe stato inutile farlo, vista la disastrosa e caotica situazione), se lo caricò addosso e lo portò giù, al primo ospedale da campo, salvandogli la vita. Il nonno ovviamente gliene fu sempre grato. Mi ricordo che quand’ero bambino e a casa mia ogni anno si uccideva il maiale, sempre accompagnavo il nonno a portarne parti abbondanti a quell’uomo, che viveva da solo in una casetta umilissima. Quel piccolo gesto di riconoscenza continuò finché quell’uomo visse.

Dopo le prime cure nell’ospedale da campo, mio nonno venne portato all’ospedale militare di Padova, dove rimase per mesi. La sua gamba era in condizioni talmente gravi che, a quanto almeno mi veniva raccontato, le sue ossa erano irrimediabilmente frantumate. Praticamente gliele estrassero, sostituendole con un supporto metallico. Da allora quindi ebbe una gamba più corta, priva di articolazione e rigida. Per tutta la vita ha camminato aiutandosi con un bastone e zoppicando, e si era fatto costruire una bicicletta con un pedale fisso. Nonostante questa menomazione, visse una vita normale: si sposò, ebbe figli e intraprese proficuamente la professione di commerciante di bestiame, in cui mio padre poi lo affiancò.
Mi ha più volte raccontato le sofferenze degli interventi chirurgici, della lunga degenza in ospedale, di una faticosa riabilitazione. Per sempre, da allora, continuarono ogni tanto a suppurare e uscire dalla sua gamba piccole schegge o frammenti d’osso. L’ultima volta accadde l’anno prima che morisse: quella ferita della carne, insomma, non si chiuse mai, e forse, ricordando le sue parole, posso dire che non guarì del tutto neppure quella dell’anima, perché le immagini dei combattimenti, della trincea, degli assalti, delle cannonate, degli amici caduti non poté mai cancellarle.

Mio nonno Enrico ebbe sempre interesse e passione per le cartoline di propaganda relative alla Grande Guerra, che, credo, cominciò a collezionare subito dopo la Vittoria. Non so come le trovasse, se se le facesse dare da conoscenti, se le comprasse e dove. Dunque non so rispondere all’interrogativo più interessante, cioè quello relativo ai canali attraverso cui si procurava i pezzi, in anni in cui, credo, certo collezionismo non era molto sviluppato.
Prendere le cartoline dalle scatole in cui le conservava, guardarle in silenzio oppure descrivermele e “raccontarmele” erano cose che faceva spesso, quando io ero piccolo. Per lui, che aveva frequentato, credo senza finirle, solo le elementari e che non aveva abitudini di lettura, la storia della guerra a cui aveva partecipato passava anche da lì, da quei disegni, da quei simboli, da quelle figure, oltre che dai ricordi che di certo mai lo abbandonarono e di cui a volte mi metteva parte.
Non era raro infatti che io gli chiedessi di raccontarmi della trincea, delle battaglie, e che lui mi accontentasse, pur se con parsimonia, frenato da una sorta di pudore o forse dal dubbio che si potesse narrare a un bambino un simile orrore, o perlomeno indeciso sul come farlo. In quegli anni, del resto, nel mio paese erano ancora numerosi gli ex combattenti di quel conflitto che potevi ascoltare nei bar, o dal barbiere, od ovunque ci fosse modo di sedersi a parlare. Le storie della Prima e della Seconda guerra mondiale passavano allora con frequenza di bocca in bocca, ferite ancora aperte, scene ancora vivide negli occhi e nei pensieri di chi le aveva vissute.

Da quei racconti, da quei ricordi, così come dalle immagini e dalle suggestioni che trovavo nelle cartoline del nonno, ricavavo emozioni, e partendo da quelle immaginavo scenari e vicende, intessevo a mia volta storie, com’è tipico dei bambini.
Quando il nonno morì, nel 1977, io stavo facendo il servizio militare di leva. Tornato, scoprii che le sue cartoline le aveva espressamente destinate a me. Il suo esempio e la sua passione piano piano mi coinvolsero e mi contagiarono, così che io ho continuato, nel corso di decenni, la collezione da lui iniziata, acquisendo pezzi in ogni parte del mondo, anche grazie al “mercato globale” a cui è stato possibile accedere con Internet.
Raccogliere un numero così ampio di pezzi, completarne le serie, conoscerne tipologie, autori e prezzi, eccetera, è stato impegno non facile, oneroso, bisognoso di molto tempo e applicazione: solo una grande passione “familiare” mi ha consentito di ottenere i risultati raggiunti.

Il fatto che oggi questa collezione sia a disposizione del pubblico e degli studiosi e sia intitolata al suo iniziatore, mio nonno Enrico, è per me motivo di soddisfazione e di orgoglio ed è, per quel giovane fante che combatté e rimase menomato nella battaglia del monte San Gabriele, e che poi fu uomo schietto, onesto, giusto e buono, pur nella tipica ruvidezza dei campagnoli romagnoli, un modo per lasciare una sua impronta e una sua memoria non solo tra chi lo conobbe e gli volle bene. Mio nonno Enrico compare spesso nelle mie pagine di narrativa, essendo io scrittore, e adesso il suo nome, più degnamente, rimarrà legato anche al frutto dell’attività e della passione collezionistica che con lui ho condiviso.

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