23 febbraio 2010
C’è un bellissimo affresco nell’isola greca di Santorini che raffigura due pugili, così aggraziati che anziché menare di pugno sembrano guardarsi allo specchio. Gli antichi greci consideravano la lotta con i pugni una disciplina completa, tanto che la introdussero nella XIII Olimpiade: correva l’anno 688 avanti Cristo. Ma secondo gli studiosi, egiziani e sumeri praticavano già il pugilato, come rivelano i dipinti sui muri del tempio egizio di Ben Hasan e l’epopea di Gilgamesh.
Tra i grandi e piccoli eroi della box moderna, assediata, soprattutto nella categoria dei pesi massimi, da ingenti interessi economici legati anche al giro delle scommesse, c’è ora un romagnolo, Matteo Signani, che ha entusiasmato il migliaio di fan che gremivano il Seven Sporting Club di Savignano sul Rubicone, il suo paese in provincia di Forlì-Cesena, conquistando il titolo italiano nei pesi medi.
A decidere il match con il napoletano Gaetano Nespro, il campione in carica che aveva strappato il titolo a Signani nel 2008, è stata all’ottavo round la riapertura della ferita all’arcata sopraccigliare destra ricevuta nella terza ripresa su colpo regolare del savignanese. A questo punto, quando tutto era ancora da decidere per la sostanziale parità dei contendenti, il napoletano veniva fermato dal medico, chiamato dall’arbitro per l’incessante perdita di sangue.
Alla fine, il tripudio dei fan romagnoli non nasconde il senso tragico di questo sport che odora di polvere e sangue, sudore maschile e inespressa violenza. Dietro il lifting tecnico che ha ripulito la boxe moderna delle precedenti simbologie, rimane – sommerso – l’urlo degli antichi romani nello stadio: un pubblico non interessato alle finezze tecniche ma concentrato solo – c’è chi dice per innato sadismo – sul colpo pericoloso, portato da guantoni rinforzati con inserti di piombo e chiodi. E il sangue, allora, era ancora più vero.