Millecinquecento musicisti, centinaia di jam session e innumerevoli vicende rivivono nel libro che il giornalista Roberto Franchini ha dedicato alla storia del jazz sotto la Ghirlandina. Abbiamo scelto la pagina in cui si racconta la seconda apparizione modenese di Louis Armstrong. Era l’inverno del 1968, dodici anni dopo il leggendario concerto in cui il trombettista di New Orleans aveva “profanato” il Teatro comunale.
L’ultimo passaggio di Louis Armstrong forse non sarebbe degno di figurare in una storia del jazz a Modena, poiché il trombettista americano fece tappa nella città solo per girare un paio di spot pubblicitari, quelli che allora si chiamavano “caroselli”, dal nome della popolare trasmissione che regalava agli italiani piccole storie di due minuti chiuse da un codino pubblicitario di quindici secondi. L’artista proveniva dal festival di Sanremo e sarebbe poi ripartito per essere ricevuto in udienza dal papa, assieme alla moglie. A quanto risulta, Armstrong incise jingle pubblicitari, che però non furono mai utilizzati. Non è chiaro, almeno a me, dove siano poi finiti quegli “stacchetti musicali”, sempre che fossero cose brevi: alcuni sostengono che furono distrutti, ma è ipotesi che convince poco o niente.
Di quel soggiorno modenese di Satchmo abbiamo almeno due versioni differenti. Cominciamo dall’ultima, in ordine di tempo, raccolta da Martino Pinna in un lungo racconto della storia della Paul Film, la casa di produzione che produceva “caroselli” (gli antenati degli attuali spot) e pubblicità per il cinema, che aveva invitato Armstrong a Modena. Questo è il suo racconto:
“Louis Armstrong passò alla Paul Film nel 1968 quando partecipò al Festival di Sanremo e registrò alcune musiche per carosello che non vennero mai utilizzate. Armstrong era già una leggenda del jazz e arrivò a Modena in treno, scendendo sui binari con in mano valigia e tromba. Nessuno lo riconobbe. Arrivato alla Paul Film fu accolto da Campani e fatto accomodare nel teatro di posa, dove restò a suonare per ore sotto lo sguardo ammirato di tecnici e regista. La sera tutto lo staff andò a ballare al Mocambo, un locale sulla via Emilia Est dove Armstrong improvvisò una jam session con un gruppo di musicisti locali. L’aria fredda di febbraio non era mai sembrata così dolce”.
Tra i musicisti che salirono sul palco per l’improvvisata jam session vi era certamente il clarinettista reggiano Henghel Gualdi, il quale aveva diretto la band che aveva accompagnato Armstrong al festival della canzone italiana mentre eseguiva Mi va di cantare. In molte interviste Gualdi ha ricordato la sua amicizia con Armstrong; accennò invece a quell’episodio nel 2002 casualmente, quando aprì una breve stagione di concerti jazz allo Shilling Club di via Cantelli a Modena. […]
Molto diverso, direi quasi opposto, il racconto che fece, a caldo, sulla rivista “Modena Sette”, Franco Pierini nel febbraio 1968; in un numero precedente, peraltro, l’arrivo del musicista era già stato annunciato con buona evidenza. Cominciamo dai particolari inutili, o quasi. È poco probabile che Armstrong sia arrivato a Modena in treno, mentre trovo assai più verosimile il racconto di Pierini, il quale elenca “il suo seguito: una segretaria particolare, un fotografo, il medico personale, il press agent, e il pianista che lo accompagna in questa visita in Italia, Marty Napoleon”.
Quest’ultimo aveva sostituito il grande Earl Hines quando aveva piantato in asso Satchmo. Come ricorda Arrigo Polillo, “Marty era il nipote di Phil, leggendario pioniere del jazz a New York: come il suo più celebre zio si chiamava in realtà Napoli ed era di origine siciliana. (Peccato che pretendesse di farsi capire da me parlando in un barbaro siculo-americano pressoché incomprensibile)”.
Opposto anche il racconto della giornata lavorativa. “Arrivato a Modena non aveva ancora fatto in tempo a vedere la Ghirlandina che era già a lavorare. Alle nove di sera, stop. Satchmo rientra in albergo, finalmente si può mettere a suo agio. S’infila il pigiama e mangia in camera con la moglie. Non ha voglia di vedere nessuno, e faticano a parlargli anche i componenti del suo seguito”.
Torniamo ancora ai dettagli di colore, cioè inutili. Secondo Pierini, Armstrong si era svegliato alle 13 e aveva fatto colazione con una birra, poi era tornato al lavoro fino alle quattro, dopo di che aveva riposato ancora un poco prima di partire per Roma.
Il soggiorno del trombettista lascia due eccitanti ricordi agli amanti delle eccellenze locali. “Scende a pranzo. Gli piacciono i prosciutti di casa nostra e divora le tagliatelle. La moglie, che in precedenza è andata a far spese per Modena, dove acquisterà anche il foulard che indosserà davanti al Papa, mangia con lui”.
Come mostra una delle due foto pubblicate da “Modena Sette”, ad Armstrong venne consegnata una piccola riproduzione della Secchia rapita, in legno e doghe di ferro, con una targhetta d’oro che recita: “La città di Modena a Louis Armstrong”. Il piccolo oggetto ricordo venne probabilmente consegnato al musicista da Max Massimino Garnier, l’alter ego di Paul Campani nella società di produzione, grande appassionato di jazz. La foto della consegna mostra un Armstrong decisamente poco interessato, serio e per nulla emozionato (del resto, come eccitarsi per un oggettino di quindici centimetri?). Eppure, Satchmo non lo gettò nel primo cestino della spazzatura che trovò e la minuscola Secchia rapita è ancora conservata nel Louis Armstrong Home Museum a New York.
Il breve soggiorno modenese mostrò al giornalista e, probabilmente, anche ai fan, un Armstrong stanco e distante, tutto diverso dal buffone che si era esibito sul palco del teatro Ariston di Sanremo.
Ricorda ancora Arrigo Polillo: “Tornò tutto solo per partecipare a una edizione del festival della canzone di Sanremo. Non capì bene di cosa si trattasse, cantò una canzone – piuttosto brutta – in italiano, fu eliminato dopo la prima sera, lasciò che qualcuno si servisse di lui per fare un po’ di pubblicità. A ‘Musica Jazz’ arrivarono lettere accorate: i suoi fans delusi ci inviavano delle lettere aperte a lui indirizzate, che cominciavano con un ‘Caro, vecchio Louis’ e dicevano in sostanza ‘Non lo dovevi fare. Perché ci hai tradito?’ Dopo l’esecuzione della canzone intitolata Mi va di cantare, che aveva accompagnato con una sovrabbondante dose di mimica facciale, Armstrong aveva attaccato anche la celeberrima When the saints go marchin’ in, pensando di dover concedere almeno un bis, ma venne interrotto da Pippo Baudo. La gara non prevedeva bis e Armstrong reagì dicendo: Mi pagano tutti questi soldi solo per una canzone?”.
Ma Louis Armstrong non era affatto un ingenuo o un sempliciotto: basta guardare le foto modenesi per comprendere come egli fosse un solido professionista e allo stesso tempo un uomo forte e sicuro di sé; recitava alla perfezione la parte del povero ragazzo nero di New Orleans. Ma solo quando era necessario per contratto.
Il breve passaggio modenese fu, tutto sommato, deludente: si era sperato in un colpo di mondanità e di fama e invece tutto si era risolto in una toccata e fuga. L’immortale ala della leggenda non aveva toccato la città. “Armstrong è uno di quei pochi personaggi che, viventi, appartengono già alla leggenda. Un mito che trae origine nei fumosi locali di San Francisco e New Orleans, in cui il jazz fu consacrato dopo essere stato promosso soprattutto da un fatto intellettuale” scrisse Pierini su un periodico, “Modena Sette” appunto, che aveva aperto proprio quel numero con un editoriale che sprizzava ottimismo per la fine di un ciclo economico al ribasso. La crisi era passata e a Modena toccava il compito di tornare da protagonista sui mercati mondiali. Insomma, l’arrivo di un personaggio da leggenda era visto come il riconoscimento implicito di un ruolo da prima fila nella geografia mondiale, non un nome da cercare nell’indice degli atlanti.
Pierini comprese bene il carattere e la personalità di Armstrong:
“Satchmo, col volto imbronciato che smitizza un poco il personaggio ridanciano e bonaccione col sorriso sempre stampato su quelle labbra piagate e incartapecorite dall’uso della tromba, passa quasi scontroso fra due ali di curiosi, distribuisce di malavoglia autografi ai più insistenti e respinge le richieste di interviste.
Sembra stanco di continuare a recitare la parte che la macchina pubblicitaria gli impone sempre. Qui in provincia, quasi in famiglia, cerca di ritrovare la sua dimensione, la quiete”.
Dubito che il trombettista sapesse con esattezza dove si trovava. Altro che provincia, altro che atmosfera di famiglia: solido professionismo in un artista che aveva già 68 anni (in realtà gli anni erano solo 67, ma la vera data di nascita venne scoperta parecchio tempo dopo).
Solido professionismo che Satchmo ritrovò al momento di andarsene, almeno parzialmente.
“Sale in macchina mentre qualcuno batte le mani e lampeggia sul far della sera qualche lampo dei fotografi.
Estrae il fazzoletto eternamente bianco e si deterge la fronte, con quella sua mossa caratteristica mentre chiude a circolo pollice e indice della mano destra nel caratteristico segno dell’okay. Come a dire, non badate, sono stanco e vecchio, ma sono ancora io, Satchmo. Era quello il Satchmo che conoscevamo, lo abbiamo riconosciuto proprio ora, mentre la macchina già si allontana, verso Roma”.
[Il titolo originale del testo è: “Tra Sanremo e il papa, la tappa modenese di Louis Armstrong”]