4 marzo 2010
Un piccolo libro, questo Romagna Graffiti di Sauro Mattarelli, che sorprende per la capacità dell’autore di “filosofeggiare” sulla Romagna, ritratta attraverso la lente del ricordo ma lontano dai cliché, per far risaltare l’unicità di un microcosmo che coniuga nonno Amedeo e Bruegel, il camerone laico dei repubblicani e le vahiné di Gauguin, le chiacchiere di osteria e Rabelais. Dalle vicende d’infanzia in una famiglia contadina, fino all’arrivo impetuoso della modernità – dai solchi alle stelle, potremmo dire – la Romagna si fa lieve graffito, profilo che sfuma, terra e sangue che inteneriscono i ricordi.
Romagna Graffiti
di Sauro Mattarelli
Emancipazione femminile
Possono dire parole d’amore senza sapere che mentono.
Le donne di Ravenna baciano con singolare, profondo abbandono;
della vita non sanno che questo: che tutti dobbiamo morire.
Hermann Hesse (trad. di Giuliano Baioni)
«Probabilmente non c’è nessuna morale», si azzardò ad osservare Alice. «Che, che, bambina!?» disse la Duchessa, «In tutto c’è una morale, basta trovarla»
Lewis Carrol, Alice nel paese delle meraviglie
Gisa era nota nel circondario per essere perfettamente in grado di capire, dopo un rapido palpeggiamento, non solo se una coniglia fosse gravida, ma anche l’eventuale feto podalico. Aveva altri “doni”: asseriva di saper distinguere un malaccio da malattie meno gravi, come le coliti o le gastriti; “sentiva” se un amore stava volgendo al tramonto. Poneva le palme corrose dal ranno e, col tatto, vedeva, ascoltava, prevedeva. Si diceva fosse infallibile nel riconoscere la stoffa di Zegna accarezzandola appena e, al tempo del raccolto, era la più brava di tutti perché non aveva neppure bisogno di guardare: al più breve tocco, o semplicemente odorando, sapeva se la pesca era pronta, se il grano era secco abbastanza, se le bietole avrebbero dato una buona gradazione zuccherina. Sfiorando l’uva matura pregustava le boccate di vino a febbraio, ne anticipava la limpidezza, il colore, l’aroma. E poi, quando tirava il venticello, se ne lasciava accarezzare il viso e diceva: «questo ci ha i nembi sotto il culo».
E allora si poteva stare certi che sarebbe piovuto o nevicato.
Molti però la scansavano perché era sboccata e in giro mormoravano che s’intendesse di stregoneria. Altri dicevano che era «la donna del prete», il che era anche peggio: non solo per il prete.
Ma una sera si prese la rivincita.
Aveva scoperto, grazie ai suoi poteri o, più facilmente, per qualche confidenza intima, che una sua vicina, perbenista e maldicente, aveva cominciato a ricevere la visita di un compare: di notte, mentre marito e suocero andavano a giocare a carte.
Si appostò. Osservò che l’uomo giungeva in bicicletta, entrava furtivamente in casa e, dopo il tempo “necessario”, usciva in modo ancora più sospetto.
Una sera, due sere… finché una volta, appena vide la scena ripetersi, si precipitò nella sala principale del camerone dicendo agli interessati di recarsi subito a casa che era arrivato con gran premura il motorista a caricare le barbabietole.
Il primo a giungere a destinazione fu il suocero, che forse nutriva sospetti dato che fece irruzione armato di forcone. L’amante, pur colto di sorpresa, fuggì precipitosamente dalla finestra e riuscì a dileguarsi a piedi tra i campi. La sua identità venne però scoperta il mattino dopo, quando la moglie infedele prese pietosamente la bicicletta dell’uomo, che forse amava più di suo marito, e gliela condusse a mano fin davanti a casa attraversando coraggiosamente tutto il paese. Grande fu lo scalpore. Montò un’ilarità generale, perché tutti erano stati già informati dell’accaduto dalla nostra rezdóra.
Gisa non lo aveva fatto per il gusto di fare la spia; né per metter zizzania, ma, probabilmente, solo per evidenziare la tartuferia di certi benpensanti. Per una volta furono altri a dover chinare il capo al suo cospetto; ad ammettere una colpa, se colpa era. Così, nel fluire di giudizi per direttissima di cui è costellata la storia di certi paesi di campagna, ci fu una santa in meno e una puttana in più.
La gente continuò imperterrita a esaltarsi tranciando sentenze, contrapponendo improbabili virtù a presunti vizi. La morale veniva rifatta dai moralisti ogni volta che serviva: sempre diversa, sempre uguale, sempre ipocrita.
La nuova peccatrice continuò a peccare.
Gisa continuò a mungere, a impastare pastasfoglia e a vivere scostata dagli altri, ricevendo, saltuariamente, amanti disperati.
I suoi baci erano avvolgenti, irresistibili, indimenticabili, infiniti.
I suoi sensi speciali, particolarmente acuti nei giorni di mestruo, restavano a lungo intorpiditi subito dopo il coito; come se nell’ora della lascivia riuscisse a con-fondere le capacità individuali in una singolarità, più ampia e vaga. «Portam in tla vaia c’a voi rugé! (portami nella valle che ho bisogno di urlare)» diceva spesso all’amante durante i preliminari. Quindi, per tenere lontani occhi e orecchi indiscreti, o forse per l’esatto contrario, la sua alcova preferita era un capanno per cacciatori raggiungibile attraverso un piccolo viottolo che correva tra i prati.
In certe occasioni noi ragazzi andavamo a sbirciare tra le frasche dei tamerici e dei vimini, richiamati dalle sua urla amatorie licantropesche, che ella liberava acutissime; udibili a poderi e poderi di distanza.
Lei Susanna al bagno, noi nel ruolo dei vecchioni. Tutti a pregustare il sottile, malizioso, narcisistico, morboso gioco del farsi-vedere-non vedere. Quando si levava, nuda, apparentemente indispettita dai nostri schiamazzi, sembrava un’inedita, deliziosa, Venere di Velàsquez.
Con un oscuro senso di peccato addosso, scappavamo a rotta di collo fino al canneto paludoso, che odorava, chissà perché, di acqua lanfa.
Una liscia betulla, francescano albero della libertà, indicava il punto di ritrovo per farci sognare attraverso nuove, sfocate e irraggiungibili immagini proibite.