“Quello che piace alla gente è che io gli do il ballo da sudata”: sono le parole di Secondo Casadei scelte dallo scrittore Gabriele Dadati per dare inizio al suo viaggio narrativo nella terra del celebre musicista romagnolo, e nella casa-museo di Savignano sul Rubicone in cui la figlia Riccarda, oggi, ne conserva la memoria. In queste pagine, lette dall’attore Faustino Stigliani, si rievoca la nascita della sua canzone più famosa.
Venne il momento in cui si lasciò tutto alle spalle: la guerra, la paura, la fame. L’essersi improvvisato di nuovo sarto. L’essere sfollato a Savignano con la famiglia. Suonando per gli Alleati – che erano soprattutto inglesi – si riuscivano ad avere farina di piselli, carne in scatola, sigarette. E se anche nell’aria c’era ancora polvere, il sole era comunque tornato a illuminare il futuro.
L’Orchestra Casadei si rimise in marcia. Un po’ alla volta si tornarono a organizzare i veglioni di sempre: quello delle Viole a Longiano, quello delle Mimose a Bellaria, c’erano La Rosa d’Inverno e delle Ghenghe a Riccione, degli Universitari e del Partito repubblicano a Cesena, dei Faroccoli a San Mauro Pascoli, dei Cacciatori a Sant’Arcangelo di Romagna, del Moto Club e del Garofano Rosso a Savignano sul Rubicone… E poi la riviera, dove negli anni avrebbero iniziato ad aprire nuovi locali: l’Embassy, la Casina del Bosco e l’Oriental Park a Rimini, il Savioli e il Vallechiara a Riccione, il Garden Ceschi a Viserba, il Miramare e l’Imperiale a Bellaria.
Ci volle tempo perché le cose tornassero a regime. Ma furono anni dolci. Secondo trovava tempo per i suoi figli, li coccolava.
«I primi ricordi sono quelli legati alla notte, verso il mattino, quando mio padre rientrava a casa da suonare. A qualsiasi ora veniva a salutare me e Gian Piero, mio fratello, e allora sentivo nel dormiveglia la coperta che si muoveva: mi scopriva un poco, mi dava un bacio sulla fronte. A volte raccontava qualcosa, a volte no. E si sentiva la mamma di là, nella camera attigua, dove dormivano loro: “Lascia stare quei bambini, che domattina devono andare presto a scuola. Si devono alzare, non li svegliare!”.
Però lui, a seconda delle volte, ci svegliava o no. Tutte le notti ci lasciava sul comodino qualcosa: abbiamo iniziato con le caramelline, le Resoldor. Stavano in una scatola con un buco da una parte. Una Resoldor per uno, che erano microscopiche. E poi siamo andati a finire a tre, quattro garibaldini – noi li chiamavamo così – che erano quelle caramelline di zucchero tonde, senza carta, di tutti i colori. Quindi siamo passati alla caramella, al cioccolatino, al bacio».
E ancora, sempre nelle parole di Riccarda, ecco le storie. Più che inventate, divenute coerenti con l’immaginario di chi le raccontava: «Soprattutto era a casa nei primi anni dopo la guerra, perché c’era poco da fare e le serate non erano tante. Mi metteva a sedere molte volte sulle ginocchia e, data la sua grande passione per la musica, nelle fiabe mi raccontava che i sette nani erano un’orchestra, Biancaneve era una cantante che duettava nel bosco con gli uccellini, il Gatto e la Volpe erano due cantastorie che andavano per osterie a cantare e a suonare con la fisarmonica e con la chitarra, il Principe azzurro suonava il sax in mi bemolle, Pinocchio andava a scuola di clarinetto in do e la Nonna aveva aperto una scuola di ballo nel bosco per gli animali, con il guardiacaccia, in società».
Sono ricordi tersi, che restituiscono l’incanto dell’infanzia.
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Quando, tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, aumentò un po’ il lavoro, ci fu da gestire il calendario, fissando le serate. Per farlo il sistema era lo stesso di prima della guerra: ci si vedeva in alcuni bar, in giorni sempre fissi. Forlì a inizio settimana, poi Cesena il mercoledì, e così via. Oppure c’era il telefono. Quando ancora i Casadei abitavano a Sant’Angelo e arrivava una chiamata, occorreva percorrere quattro chilometri – a piedi o in bicicletta – per raggiungere il posto pubblico di Gatteo. A volte toccava a Secondo, a volte a Dino. Le cose non cambiarono a Savignano, nel dopoguerra.
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Capitava altre volte che Secondo prendesse accordi a casa. Ed era bello, perché quel mestiere che lo rapiva per intere nottate risultava più vicino, più concreto. Inoltre ogni concerto in programma era un ulteriore passo fuori da quella voragine spaventosa che era stata la guerra, e che si era portata via anche la casa in cui era cresciuto.
«Quando arrivava qualcuno andavamo ad aprire. Lo facevamo accomodare in questo studio, poi il babbo chiudeva la porta. Noi andavamo tutti in cucina. Dopo un po’ di tempo il babbo apriva: “Maria, porta da bere!”. Noi facevamo dei gran salti perché quando diceva “porta da bere” voleva dire che era stato fatto un contratto, il che succedeva quasi sempre. Allora la mamma – avevamo un buffet con il vetro che si incrociava – prendeva fuori due, tre bottiglie. Un bottiglione di cognac Vecchia Romagna; poi c’era una bottiglia che mi incuriosiva sempre, che a me piaceva, si chiamava Millefiori Cucchi, con il rametto cristallizzato; poi c’erano l’Oro Pilla e lo Strega. Portava di là il vassoio con i bicchierini da liquore, bevevano e con una stretta di mano siglavano il contratto. Noi tutti contenti perché voleva dire che si poteva comprare un astuccio o un paio di scarpe in più; la mamma voleva fare il servizio buono e non ci riusciva mai: il servizio che ogni brava padrona di casa ha, con i piatti e i bicchieri di cristallo».
In un modo o nell’altro, Casadei riusciva a farsi apprezzare da tutti. Anche da chi nutriva dei pregiudizi nei confronti del suo lavoro. C’è un episodio che lo esemplifica bene. Riccarda andava a dottrina dalle suore. Una volta, essendo arrivata una consorella nuova, capitò che i bambini dovessero raccontare cosa facevano i genitori per vivere. Dopo che ebbe parlato, la piccola si trovò a incassare un giudizio pesante: quello di Secondo era un mestiere ispirato dal diavolo stesso. Tornò a casa corrucciata e si confidò con il papà, che subito andò a parlare con la superiora. Cosa si dissero, non è dato sapere. Ma da quel momento in poi, due volte l’anno, quando arrivavano i dischi nuovi da Milano – si andava in primavera e in autunno a incidere, nella basilica di Sant’Eufemia, la cui acustica era buona a tal punto che la usava anche Maria Callas, e Mina l’avrebbe fatto in seguito –, Secondo e Riccarda andavano insieme dalle suore a farglieli sentire. Il musicista, dopo un po’, ammiccava alla bambina, facendole segno con gli occhi di guardare. Sotto i gonnelloni neri, i piedi si muovevano. Anche le suore venivano conquistate dal ritmo, in anni in cui, durante le confessioni, i sacerdoti accordavano l’assoluzione alle donne che dicevano di aver ballato solo a patto che si impegnassero a non farlo più.
Del resto, per Secondo il rapporto umano era centrale. Il punto non era tanto e solo fare musica: era portarla alla gente. Spesso diceva: «Non è difficile suonare per ore. Il difficile sta, tutte le volte che si torna in un paese, ricordarsi che uno è stato operato e chiedergli come va, sapere che un altro ha trovato un impiego dopo tanto penare e fargli le congratulazioni…» Ci teneva. Anche perché erano numerose le coppie che si erano conosciute sulla pista da ballo e che anni dopo rivedeva unite in matrimonio. Quella era la sua gente.
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In seguito l’Orchestra Casadei aveva ricominciato a incidere. E furono i diritti d’autore dei dischi vecchi e nuovi che fecero balenare la possibilità di costruire una casa a Gatteo Mare per l’estate. […] E mentre i membri dell’orchestra si davano il cambio, c’era una cosa che rimaneva sempre uguale: l’innamoramento permanente per la musica. Non si concretizzava soltanto nei concerti e nelle incisioni. Prendeva per mano il maestro soprattutto quando c’era da comporre. Anzi: lo strattonava, lo portava con sé al di là di ogni ragionevole indugio.
«Aveva dei momenti in cui diventava un po’ strano. Non era il babbo di sempre, che era molto aperto, espansivo, compagnone. Diventava strano e allora voleva dire che aveva degli spunti in testa. Si ritirava nel suo studio, stava lì tutta una giornata, o comunque il tempo necessario per buttare giù quello che gli era venuto. Poi completava quegli spunti anche un anno o due dopo; però non se li voleva far sfuggire. E quando usciva era ridiventato il babbo di sempre. Cominciava a chiacchierare, a scherzare, sereno, molto allegro. Diceva che a lui sembrava di impazzire, quando aveva questi momenti».
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Tra le altre, in quegli anni, compose anche Romagna mia. Anzi: Casetta mia. La scrisse interamente lui, musica e parole, senza collaboratori. Era il 1954. Il brano – dedicato all’abitazione di Gatteo, che da subito era diventata luogo degli affetti a cui riandare con il pensiero quando non era possibile nel concreto – non lo convinceva del tutto, nonostante piacesse molto ad esempio a Emilio, il marito di Angelina [la sorella di Secondo Casadei]. Così, quando andò per incidere, portò con sé la partitura come tredicesima di dodici che erano previste per il disco.
A Milano capitò che Carlo Baiardi – il sassofonista che aveva preso il posto di Primo Lucchi, morto improvvisamente nel 1950 – avesse un problema di gola e non fosse disponibile per l’ultimo pezzo in programma. Il maestro Dino Olivieri, direttore artistico della Voce del Padrone, chiese allora se ci fosse una riserva. Non si poteva lasciare il disco incompleto. Casadei gli sottopose Casetta mia. Dopo averla ascoltata, Olivieri chiese: «Ma perché Casetta mia? Lei è un romagnolo purosangue. La chiami Romagna mia». Secondo si convinse immediatamente. Bastò sostituire qualche parola qua e là. E subito venne incisa. La voce era di Fred Mariani, cui si univa dalla metà del brano quella di Arte Tamburini, a raddoppiarla.
«Qualche giorno dopo che la canzone, entrata in repertorio, veniva proposta nelle serate, cominciò a dire: “Lo sai che ieri sera abbiamo suonato Romagna mia e ce l’hanno fatta fare due volte?”, “Lo sai che ieri sera ce l’hanno fatta fare addirittura tre volte? E poi la cantano tutti, subito ci seguono quando la intona il cantante. Cantano e ballano Romagna mia”. Andava a Forlì, veniva a casa: “Ma lo sai che quell’orchestra mi ha chiesto lo spartito di Romagna mia?”. Venne a casa un giorno che era il più felice del mondo: “Ma lo sai che i maestri Ely Neri e Silvano Prati – che erano di due orchestre concorrenti, perché facevano un po’ più di moderno, mio padre era più tradizionale – ma lo sai che hanno chiesto gli spartiti di Romagna mia, che la vogliono inserire nel loro programma?” Lì fu il massimo».
L’abitudine di concedere le proprie partiture, introdotta prima della guerra con la complicità di Remo Panzavolta, continuava a dare frutti. E così a Casadei capitava di sentir fischiettare il ritornello da un muratore su un’impalcatura, oppure di trovarsi a Forlì, in stazione, e di imbattersi in un facchino che la canticchiava.
Il successo di Romagna mia, tuttavia, non coincise con lo stretto perimetro delle esecuzioni dal vivo, dell’Orchestra Casadei o di altre che la avevano in repertorio. Gli anni Cinquanta, infatti, furono anche quelli dei juke-box. Negli Stati Uniti, dove si erano diffusi già due decenni prima, la concorrenza tra le aziende che li producevano era forte. Uscivano di continuo nuovi modelli. Nel 1938 era stato prodotto il primo con parti in plastica che si illuminavano. Lo scoppio della guerra aveva bloccato tutto: le fabbriche che ne erano in grado, dovevano riconvertirsi per fini bellici. Ma il termine del conflitto, e l’arrivo degli americani in Europa, aveva ridato impulso alla loro diffusione. Nei locali pubblici, dunque, Romagna mia prese a suonare spessissimo.
Rimaneva un’ultima soglia da varcare, per la musica romagnola. Quella della radio. Chi faceva le programmazioni, infatti, tendeva a considerare i brani del repertorio popolare un’esperienza minore. Nonostante la musica leggera non proponesse sempre melodie originali o testi di smagliante qualità poetica, si pescava comunque da quel bacino. E basta.
C’era però un’emittente con sede subito al di là del confine con il Friuli-Venezia Giulia, Radio Capodistria, che aveva nel proprio palinsesto uno spazio di canzoni a richiesta e riceveva lettere dall’Italia. Fu lì, a Musica per voi, che l’Orchestra Casadei fece breccia. In particolare Romagna mia venne programmata a partire dal 1958. Il successo fu grande.
I diritti, dalla Siae, arrivavano due volte l’anno. Cifre sempre più elevate. Quando Secondo apriva la busta, gli venivano gli occhi lucidi per la commozione. Diceva: «Ma guardate quante volte hanno suonato i miei brani…». Perché era quello che gli dava gioia. Mentre i figli badavano alla sostanza. Oramai non erano più così piccoli. E un vestito nuovo faceva piacere. Quando lo indossavano tra gli amici, e qualcuno lo notava ammirato, dicevano: «È un regalo della zia di Roma!». La chiamavano così, la Siae, quell’entità misteriosa e munifica che da lontano inviava denaro. Proprio come una parente che si vede solo per le feste comandate e dà la mancia.
Quanto a Maria, aveva il suo sogno di sempre: quello di un bel servizio di piatti, di bicchieri di cristallo, di tazzine. E finalmente riuscì a comperarlo. Lo teneva in un mobile in salotto. Solo che adesso, prima di partire e andare a incidere a Milano, l’orchestra veniva a provare lì, per perfezionarsi. Clarinetto e sax facevano sobbalzare i bicchieri. Che scoppiavano. Aveva un bel daffare la donna a spostare tutto ogni volta. Il destino di quel servizio era di rimanere spaiato. La musica dava, la musica toglieva.
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Immagini
Secondo Casadei e Arte Tamburini in tournée con l’Orchestra Casadei nel 1961: immagine di copertina del libro di Gabriele Dadati “Secondo Casadei, ‘Romagna mia’ e io” (archivio fotografico Casadei Sonora)
Secondo Casadei nel 1962, al fianco della vettura dotata di roulotte per gli strumenti della sua orchestra (archivio fotografico Casadei Sonora)
Musiche
Secondo Casadei – “Alla Casadei” (La grande orchestra della Romagna)
Secondo Casadei – “Visione lontana”
Secondo Casadei – “Dolore” (Extraliscio)
Secondo Casadei – “Romagna mia” (dal documentario “Secondo Casadei era mio padre”)
Strikeballs – “Romagna mia”
Le musiche originali di Secondo Casadei sono pubblicate dalle Edizioni musicali Casadei Sonora.
28 Ottobre 2021
| Racconti d'autore
Secondo Casadei, “Romagna mia” e io
Testo tratto dal libro omonimo di Gabriele Dadati (sottotitolo: “In viaggio con mamma sulle tracce di un genio semplice”; Milano, Baldini+Castoldi, 2021)
Vittorio Ferorelli