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8 Marzo 2017 | Racconti d'autore

Speciale Festa della donna – Violenti si diventa

Testo di Dacia Maraini tratto dal libro “Lasciatele vivere. Voci contro la violenza sulle donne”, a cura di Valeria Babini (Bologna, Pendragon, 2017)

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Alessia Del Bianco

Da tre anni l’Università di Bologna dedica un seminario alla violenza contro le donne, aperto a tutta la cittadinanza. Dal libro che raccoglie alcune delle riflessioni nate abbiamo scelto, per l’8 marzo, le parole della scrittrice Dacia Maraini.

La violenza contro le donne è un sintomo, non è qualcosa che appartiene alla natura. Io sono assolutamente contraria a qualsiasi spiegazione di tipo biologico, perché approda al razzismo in quanto la natura non si cambia, non si può cambiare, è un destino che portiamo dentro di noi, nel nostro corpo, mentre la cultura si analizza, si giudica e si può cambiare. Mi rifiuto di credere che un bambino nasca, per esempio, stupratore o picchiatore; credo che lo diventi quando c’è una cultura che educa alla violenza, che educa alla separazione fra predatori e prede, cosa che purtroppo vediamo perfino nei giochi e nei fumetti. Non credo neppure che ci sia un sesso portato a commettere la violenza e un altro sesso portato a subirla, credo che siamo nati tutti “esseri umani”; però già si comincia a differenziare col linguaggio, che non è affatto uno strumento anonimo, ma porta invece con sé una profonda simbologia e dà delle indicazioni discriminatorie. Se pensiamo che in italiano il maschile si dà come universale e il femminile è sempre un derivato (con la parola uomo si intende anche essere umano e comprende quindi anche la donna, mentre dicendo donna ci si riferisce al derivato, non comprendendo l’uomo) si capisce bene che c’è già una profonda disparità dentro il linguaggio.
Ma il linguaggio è vivo e mutevole. Oggi, ad esempio, si discute molto se si debba usare il femminile per alcune cariche, come “la ministra”, “la deputata”: io penso che sia un bene riconoscere il genere, non vedo perché si debbano nascondere tutte le professioni dietro il genere maschile. Un esempio abbastanza curioso è la parola “maestro”: se a un direttore d’orchestra diciamo maestro, riconosciamo un prestigio alla parola che lo definisce; ma se diciamo maestra, immediatamente si pensa a una insegnante di scuola elementare e a niente altro. Questo anche perché molte professioni per secoli sono state proibite alle donne.
Vi faccio un esempio, una storia molto bella – io amo le storie, ascoltarle e raccontarle – ed è il caso di Gaetana Agnesi, che era una grande matematica, vissuta nel Settecento. Era un tale genio della matematica che, pur non avendo frequentato la scuola ma avendo fatto solo studi privati perché le università escludevano le donne, corrispondeva con i maggiori matematici europei e per la sua grande fama di sapiente le hanno offerto una cattedra a Pavia. Lei accetta, anche perché il padre, non avendo figli maschi, aveva puntato tutto su questa sua ragazza geniale, ma dopo nemmeno un anno di lezioni dà le dimissioni dichiarando che non se la sente di continuare a insegnare a una classe di soli uomini, con colleghi solo maschi, si paragona a un fenomeno da baraccone. Racconta che la toccavano per vedere se era o no una vera donna o non piuttosto un uomo travestito da donna. Questo per farvi capire come l’esclusione dagli studi superiori abbia portato naturalmente a una esclusione dalle professioni. Una esclusione che è durata secoli: Virginia Woolf scriveva che fino a che le donne non saranno presenti in massa negli studi superiori sarà molto difficile cambiare. Ci saranno sempre delle donne considerate geniali, ma saranno delle eccezioni, e quindi subiranno la sorte di Gaetana Agnesi, ovvero essere considerate un fenomeno da baraccone. Da questa discriminazione viene secondo me molta violenza, e in questo senso penso che la violenza sia un prodotto culturale che non ha niente da spartire con la natura.

E qui possiamo aprire un capitolo su una parola tabù: la parola “stupro”.
Cominciamo col dire che in natura lo stupro non esiste, gli animali non stuprano. Certe forme di sessualità animale possono essere interpretate come violente, però lo stupro di gruppo, ad esempio, è una cosa tipicamente umana. Lo stupro è stato sempre usato nelle guerre: stuprare la donna del nemico serviva per umiliare e mortificare il vinto (la donna veniva ritenuta una proprietà del nemico, e mettere il seme nel ventre della donna del nemico era considerato il massimo dell’intrusione nel mondo del vinto). Io penso che ancora oggi, quando un uomo stupra, compie un atto di guerra che non riguarda per niente il desiderio sessuale: la sessualità per fortuna percorre altre strade, e nello stupro il solo desiderio esistente è quello di umiliare la persona che in quel momento si considera nemica.
Purtroppo c’è un’antica abitudine culturale che considera lo stupro quasi una parte del destino del rapporto fra i sessi, tant’è vero che i latini stabilivano che vis cara puellae, la forza piace alle fanciulle, come se lo stupro fosse una piccola forzatura, desiderata dalla ragazza anche se non osa dirlo. E non è un’idea solo antica: l’autrice del fortunato Cinquanta sfumature di grigio, libro pieno di violenza, suggerisce che se la donna sceglie il suo aguzzino, compie un atto di libertà.
Secondo me si tratta di un paradosso: perché non si può scegliere liberamente il proprio aguzzino. Più che un paradosso questa affermazione esprime una trappola, qualcosa di terribile: ammette una cultura che concepisce come naturale il rapporto fra vittima e aguzzino, e su questo dovremmo riflettere. Il desiderio fa parte della natura ma il modo in cui si esprime il desiderio sessuale fa parte della cultura, non più della natura: ecco il punto d’innesto, e noi qualche volta equivochiamo, perché consideriamo natura questo prodotto complesso che è la sessualità dopo duemila anni di storia, e invece è cultura. Sono abitudini acquisite, modi di fare e di pensare introiettati da millenni di storia patriarcale.

Così la maternità: certamente diventare gravide e partorire fa parte della natura, però quante metamorfosi e interpretazioni della maternità ci sono state nella storia, basta guardare la pittura. Nella storia della pittura antica e medievale, il corpo era ancora molto visibile, la Madonna allattava il bambino. Oggi questa carnalità non esiste più, non c’è più l’allattamento, la Madonna è completamente coperta da un velo, è una figura anonima e asessuata che non ha più forme. È sempre la madre, ma trasformata in icona.
Un altro esempio. Nella simbologia più arcaica del cristianesimo, latte e sangue erano di pari importanza, tant’è vero che il latte veniva considerato il primo nutrimento spirituale e si pensava che Dio stesso fosse madre oltre che padre, e non c’era niente di strano in un dio materno che “nutricava” – come dice Caterina da Siena – le sue creature attraverso il latte. Grazie all’ultimo libro che ho scritto su Chiara d’Assisi ho approfondito questo argomento, che mi ha molto appassionato, e ho scoperto che la Chiesa, da vicina qual era al primo cristianesimo, esaltava e riveriva il corpo materno per cui Dio era prima di tutto una madre che nutre. Mano a mano però che si arma e diventa una potenza militare, forma eserciti, crea tribunali (ricordiamo la malfamata Santa Inquisizione), e scopre il rogo per gli eretici (siamo all’epoca di Chiara, tra il 1100 e il 1200). Cominciando da Innocenzo IV sancisce la liceità della tortura, inizia a stabilire regole che vanno contro le parole di Cristo: “porgi l’altra guancia”, “ama il prossimo tuo”. Ecco allora l’importanza di Francesco d’Assisi e di Chiara, per cui “il Vangelo non ha mai detto che bisogna fare la guerra o sbudellare i nemici di un’altra religione”.
Scontrandosi con i due grandi imperi, quello della Chiesa e quello di Federico II, la Chiesa, dicevo, nel suo simbolismo, perde il latte, mantenendo invece il sangue – tant’è vero che la Messa è basata sul sangue di Cristo. Ecco perché ho trovato bellissimo il sogno che fa Chiara d’Assisi, in cui Francesco, già morto, le dice di portargli una bacinella d’acqua, e lei sale su per una scala ripida e, racconta, “a me sembrava di andare in pianura tanto era facile montare su quegli alti gradini, […] in cima ho trovato Francesco che si è lavato le mani, e poi si è aperto il saio e mi ha porto un seno dicendomi di bere il suo latte”. Bere il latte dal seno era simbolicamente il primo sapere della Chiesa, ed era un sapere materno.
[…]

Le funzioni del corpo non hanno veramente niente a che vedere con le regole, le leggi, i costumi, le abitudini, il linguaggio, che sono tutte produzioni culturali: è da qui che dobbiamo partire, perché così capiamo che la violenza contro le donne è un linguaggio, un sintomo, qualcosa che ci sta dicendo di una società che non sta bene con se stessa. C’è qualcosa che non va nel rapporto fra i sessi, ed ecco allora il femminicidio, che è la reazione di una parte del mondo maschile di fronte alla minaccia di perdere certi privilegi, come per esempio quello del possesso, dove si parte dal presupposto “io ti amo quindi tu sei mia” (che è proprio il teorema tradizionale dell’amore e del sesso), “se te ne vai metti in discussione un principio di proprietà”. Ma tutto questo non ha niente a che vedere con la natura, ed è invece un prodotto sociale, che a volte viene espresso anche dalle donne: ed è per questo che non va interpretata come una guerra fra i sessi.
Recentemente ho assistito a un processo per stupro di una bambina di 12 anni, violentata da un gruppo di ragazzi di 15-16 anni. Fuori dal tribunale le mamme di quei ragazzi urlavano contro la ragazzina perché andava in giro con le gonne corte, prova che li aveva provocati. Questo per dire come non sia una questione di genere; quelle madri appartengono a una cultura che crede ancora che esistano i predatori e le prede, e che le prede debbano sempre scappare, nascondersi, coprirsi, mentre i predatori le inseguono.
La natura crea due creature umane meravigliose fatte per accoppiarsi per desiderio e per amore, non perché una debba rincorrere l’altra per umiliarla, costringerla e dominarla. E proprio perché è un prodotto culturale, di una società malmessa, malformata, che non ha capito cosa vuol dire parità, democrazia, uguaglianza – tutte parole che idolatriamo ma che non pratichiamo – la violenza contro le donne si può modificare ed eliminare. Non è un destino né una fatalità biologica. Se continuiamo a riprodurre l’idea di eros come possesso, di sesso come potere, di paternità come comando, di matrimonio come proprietà, è chiaro che i femminicidi continueranno, perché quando si mette in crisi il concetto di proprietà ci sono uomini che si sentono depredati, svirilizzati e offesi, e per la disperazione e la rabbia possono trasformarsi in assassini.
Tutto questo dipende da noi, dipende da una società che deve cambiare nel profondo. Non basta cambiare le leggi che pure sono già state aggiornate, soprattutto grazie al femminismo che è stata una grande rivoluzione pacifica. Si pensi che nonostante il reato di stupro non sia più un delitto contro la morale ma finalmente contro la persona, ancora oggi in un processo per stupro è la donna che deve dimostrare di non essere stata consenziente. Il che è assurdo perché se in un caso di rapina non si deve dimostrare il consenso a essere stati rapinati, non si capisce perché in ciò che di fatto è una “rapina sessuale” si chieda alla donna di farlo. […]

Non mi stanco di ripetere che la violenza sulle donne è un prodotto sociale e culturale, e che bisogna smettere di considerarla una cosa naturale, perché altrimenti la si accetta e si accettano anche le deformazioni come la prostituzione. La storia di quelle due sedicenni parioline (quindi ricche) di cui hanno parlato i giornali, che si prostituivano in cambio di una ricarica del telefono, è a mio parere l’apoteosi della cultura di mercato, in cui volenti o nolenti siamo immersi tutti. Una cultura che vuole creare il buon compratore e il buon venditore, non il buon cittadino, e dove tutto si compra e si vende. Ora, il fatto che una ragazza di 16 anni pensi che il suo corpo valga quanto una ricarica del telefono è il trionfo della cultura del consumo, che le dà l’illusione di essere libera di vendere liberamente il proprio corpo, mentre invece è “la schiava delle schiave”, che ha talmente introiettato il concetto di schiavitù da arrivare a considerarsi senza imbarazzo una merce, credendo che vendersi senza obbligo, con naturalezza, sia una grande conquista di emancipazione. La cosa peggiore che possa capitare a una società è che questo concetto di mercificazione si incisti nel cervello, tanto da considerarlo un fatto del tutto legittimo (e analogamente non ci si scandalizza più di tanto quando si viene a sapere che un senatore si vende per 3 milioni di euro…).
Io credo che una società avanzata che fa sue le regole del mercato al punto da identificarsi con la merce in vendita ha perso qualcosa di importantissimo: il senso della dignità umana. Ma, che fare? Certamente incominciare con la scuola. La prima forza dell’insegnamento è quella di creare cittadini responsabili, che pensino con la propria testa e siano razionalmente consapevoli delle conseguenze dei propri atti. Non informazione ma formazione, abituarsi a stare insieme e confrontarsi.

Il mio è un invito alla riflessione: di violenza contro le donne si parla poco, è un argomento che si tende a sottovalutare, quasi fosse parte della natura umana e dell’ordine sociale, come quando si dice che la prostituzione è il mestiere più antico del mondo e con questo evidentemente da accettare a scatola chiusa. Perfino le donne spesso tacciono perché non vogliono inimicarsi gli uomini che danno loro lavoro, protezione, compagnia, soldi, eccetera. Altri temono che salti fuori la solita diatriba della guerra tra i sessi, per cui l’uomo risulta fisiologicamente e inevitabilmente violento e la donna no. Ma anche questa è una convenzione: le donne sono capaci di violenza quanto gli uomini, ma dalla storia hanno imparato, o sono state costrette, a sublimare. Tutti gli strumenti di educazione e di repressione sono stati anche strumenti di sublimazione. E se le donne hanno imparato a sublimare di più, non bisogna vergognarsene ma anzi, esserne fiere. Tutti siamo abitati da istinti aggressivi, gelosie, desideri di vendetta, voglia di ferire, rabbie violente, tutte cose che abbiamo in comune con gli animali; ma in quanto esseri umani dobbiamo imparare l’arte di stare insieme, che significa imparare le regole della sublimazione e del rispetto verso l’altro. Questa è l’etica.

[Il titolo originale del testo è: “Raccontare la violenza contro le donne”]

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