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29 Giugno 2010 | Archivio / Lo sguardo altrove, storie di emigrazione

Spoon River d’Emilia

Una piccola comunità d’Appennino immortalata nelle foto dell’orologiaio emigrato a Chicago

A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri.

29 giugno 2010

Anche noi in Emilia abbiamo la nostra Spoon River, il nostro cimitero di campagna con le lapidi grigie da cui occhieggiano sguardi remoti. Le fotografie incorniciate negli ovali di porcellana di quei sepolcri non rimandano più a esistenze sconosciute, sotterrate per sempre dalla polvere del tempo. La nipote del fotografo ha ricostruito la vita che batteva dietro i volti che “hanno il sorriso e la malinconia” della gente della montagna reggiana. Il perno di tutte le storie che Rosa Maria Manari dipana nel suo libro Hanno il sorriso e la malinconia (Aliberti, 2008) è la vicenda del nonno Amanzio Fiorini, il fotografo-orologiaio di Nismozza, il piccolo cimitero di questo villaggio dell’Appennino reggiano nell’alta valle del Secchia, è adagiato a una collina su cui incombe la cima del monte Ventasso, chiamata poeticamente in dialetto in tel Fade (“là dove ci sono le fate”): qui, quasi tutti i morti riposano con l’espressione catturata dall’obiettivo di Amanzio.

Come molti paesi di montagna, Nismozza è stato segnato dall’emigrazione. Per sfuggire a un destino di miseria o di piccole, umili cose, Amanzio Fiorini nel 1900, sedicenne, se ne va a Genova, dove impara il mestiere dell’orologiaio. Tornato a Nismozza, capisce che aggiustare sveglie non gli può garantire un futuro, con i pochi soldi che circolano nel borgo. Così, nel 1908, dopo essersi sposato, sceglie la via dell’America, destinazione Chicago. Gli emigrati venuti dai monti reggiani vi scavavano le fogne, vivendo – come dicevano – “da stella a stella”, perché scendevano di sotto che era ancora buio e risalivano dopo il tramonto. A Chicago è sepolto Sesto Fiorini, che aveva portato con sé una foto del Ventasso di suo fratello Amanzio grande come una parete, e conservava nel taschino un riccio di castagna delle sue montagne. Altri paesani partivano per le miniere inglesi, mentre le donne andavano a balia in città o a servizio delle famiglie ricche.

Amanzio Fiorini a Chicago trovò lavoro in una fabbrica di orologi. Traccia del suo passaggio negli States è rimasta nel sito di Ellis Island. Nel tempo libero leggeva qualche libro di fisica e fotografava con una Kodak. Tornò in patria allo scoppio della prima guerra mondiale: fu mandato in Piemonte, a Romagnano Sesia, a dirigere un reparto di meccanica di precisione in una fabbrica di proiettili. Con il denaro guadagnato negli Stati Uniti si costruì la casa a Nismozza e trovò il coraggio di aprire un atelier di fotografo accanto al laboratorio di orologiaio. Il tempo divenne così padrone della sua vita, racchiusa tra la fotografia e gli orologi, tra la cattura dell’istante e lo scorrere dei minuti. Il tempo, direbbe James Hillman, era la vocazione, il demone, il “codice dell’anima” di Amanzio. Il quale arrivò a chiamare una figlia con il nome di una marca americana d’orologi, Elgin. 

Dal suo studio passarono migliaia di montanari, migliaia di volti impressi nelle lastre al bromuro d’argento, molti dei quali riposano nel piccolo cimitero fra le ultime case del paese e il monte. Venivano per la foto di famiglia, tutti stretti intorno al capofamiglia; per la foto da mettere sui documenti; per spendere la propria bellezza (le ragazze); per sancire l’unità nel matrimonio (i giovani sposi). Come sfondo, Amanzio usava un improbabile paesaggio marino di onde e palme, in contrapposizione al consueto scenario di boschi e castagni.

Il suo archivio fotografico, di proprietà della famiglia, disegna un’antropologia montanara di grande interesse, tant’è che alcune sue foto sono finite in importanti riviste di fotografia, quali Time e Life, e in una mostra al Beaubourg di Parigi. Migliaia di negativi su vetro raccontano le speranze, la fame, le vicende dolorose (l’immagine agghiacciante di giovani partigiani uccisi dai nazisti nell’inverno del ‘44) e felici di una comunità, la vita quotidiana nella valle del Secchia, il lavoro nei campi, gli autunni e le primavere, i cieli puliti dell’Appennino, il vento tra i rami, l’odore dei vecchi – “odore di fumo di stufa, di conigliera, di tabacco da pipa, di fieno, di grasso”, ricorda Rosi Manari. In queste fotografie riaffiora la vita scomparsa, lontana.

La malinconia che è nel titolo del libro traspare nel ricordo di queste esistenze. Per l’autrice il ricordare, come per Leopardi, è forse il modo migliore per contemplare il proprio nulla. Ma un nulla riempito di voci, di trame, di suoni, canti, colori, che il pesante cancello di ferro del piccolo cimitero mette al riparo da chi, troppo frettoloso, non ha tempo né voglia di guardare indietro. Tra la materia e la morte – diceva Kleist – non accade niente, se non un niente da riempire di poesia. È la poesia degli umili che sale dalle piccole tombe di terra coperte di ghiaino bianco in cui riposano i montanari di una volta. Come don Spero, che aveva avuto l’imprudenza di nascondere partigiani in canonica, e qualcuno, forse un tedesco, centrò con una bomba a mano, mentre camminava con passo lento leggendo il breviario. O Tugnin, che nella foto di Amanzio sembra un essere selvatico del bosco più che un umano: lui che, secondo le stagioni, dormiva nella stalla, nel fienile, nel seccatoio delle castagne, e conobbe il letto solo quando si ammalò e morì.

Ci sono esistenze segnate da strani indizi, presentimenti, coincidenze. La Carolina figlia di Carlo delle Fratte era una bella ragazza prosperosa che nel 1915 lasciò Nismozza per andare in Liguria, come molte sue coetanee, a fare la domestica. Dopo qualche anno si trasferì a Palermo, meta inusuale per le valligiane, ma in questo caso ambita, perché si trattava di prendere servizio presso una famiglia nobile, gli Emanuele di Belforte. Carolina doveva occuparsi dell’aristocratico, che era vedovo, e di suo figlio adolescente. Dopo anni di pulizie domestiche, Carolina sposò il conte divenendo la contessa di Belforte. Quando le capitava di tornare al paese – scrive Rosi Manari – “scivolava elegante nelle strade polverose di Nismozza e guardava con un certo sussiego i suoi compaesani di una volta”. Nel borgo c’era chi ricordava le sue scarpe alla moda, la borsetta, i pizzi e soprattutto l’abbandono del dialetto per un forbito italiano. Ma quando lo sposo morì, fu travolta dal dissesto finanziario della famiglia e dovette abbandonare Palermo senza una lira. A Nismozza fu ospitata in alcune stanze di una corte in fondo al paese. La sua lapide sotto i cipressi del cimitero è modesta, ma reca almeno il titolo di contessa.

Lo scandalo del dolore del mondo è riscattato dalla quiete di un piccolo cimitero, dalla serenità che vi si respira. Appare ironica, oggi, anche la vicenda di Argentina Fiorini, sorella di Amanzio. Argentina era comunista, tanto convinta da indossare sempre un paio di calzettoni rossi. Quando la gente veniva al mercato a Nismozza, al ritorno raccontava di aver visto “quella con i calzetti rossi”. Anche lei era andata a Genova a far la domestica, e ne era tornata con una figlia non riconosciuta dal padre, Emilia. Diventata grande, Emilia emigrò in Argentina con il marito e i due figli. La madre la raggiunse parecchi anni dopo e il destino volle che Argentina morisse in Argentina investita da un autobus. Alcuni decenni dopo, a metà degli anni Settanta, si materializzò a Nismozza, un giorno d’estate, il primo figlio di Emilia. I parenti lo accolsero con calore, ma restarono esterrefatti quando il ragazzo, parlando della madre e della sua vita in Argentina, lodò la Giunta militare allora al potere difendendo la dittatura. Se ne andò la sera stessa senza alcun rimpianto da parte dei parenti. A compensare la delusione e a rimettere le cose a posto, fu il figlio più giovane di Emilia, anche lui apparso all’improvviso a Nismozza un giorno d’estate. Parlò malissimo dei militari al potere in Argentina, facendo contenti i parenti che commentarono: “Ha lo stesso sangue dell’Emilia e dell’Argentina”.

Ora è il vento che presiede ai ricordi nel vecchio cimitero di Nismozza.

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