Attrice e autrice, Nicoletta Fabbri ha reagito alla chiusura dei teatri imposta dalla pandemia cercando figure, parole e immagini che alimentassero fiducia nel futuro. Le ha ritrovate in un documentario realizzato qualche anno fa da Stefano Bisulli e Roberto Naccari per raccontare le storie delle donne che, sulle macerie della Seconda guerra mondiale, hanno costruito il successo turistico della riviera romagnola. Da quelle storie è partita per creare un testo originale e un podcast audio, di cui ci fa ascoltare un brano in anteprima.
Nel 1982 questa canzone [“Un’estate al mare”] vinceva il “Disco Verde dell’Estate” al Festivalbar. Giuni Russo: io l’adoravo, lei e i suoi occhialini luccicanti. Però noi in casa dovevamo ascoltare Adriano Celentano, perché a mio padre piaceva moltissimo. In tutte le automobili della famiglia c’era una cassettina di Celentano. Alcuni pomeriggi d’estate io e mia madre prendevamo la 131 Fiat Mirafiori arancione e andavamo al mare.
– No, non è bello oggi, guarda… Si guasta… Hai messo su te, la borsa?
– Sì, mamma!
– E c’erano dentro i panini e la frutta, vero?
– Sì!
– E c’era anche il succo di frutta?
– Sì, mamma!
– Lo vedi che si guasta? Te l’ho detto che non dovevamo venire al mare oggi. Ce l’hai messo il costume di ricambio che sennò ti ammali?! Guarda che se non l’hai messo dobbiamo tornare indietro! Anzi torniamo indietro subito che viene a piovere.
– No, mamma! Ce l’ho messo il costume di ricambio! Andiamo al mare, ti prego! Andiamo al mare!
Andavamo al mare con il sole, con il vento, anche con la pioggia, tanto poi smetteva. Andavamo al mare sempre un po’ nervose, per via di tutti quei lavori che c’erano da fare in casa e non finivano mai.
– Ma si può andar via con una cucina così? Che ho anche quel pollo da cuocere, ci vuole almeno due ore… E tua nonna poi, nel bar, chi la sente? Va là va là! Senti, dai retta a me che oggi tua nonna ci sta da sola nel bar. Noi due, io e te, andiamo al mare!
C’erano sì e no quindici chilometri per arrivare alla spiaggia, ma duravano moltissimo, almeno cinque o sei canzoni di Celentano e mia madre rallentava perché le piaceva molto l’ultima del lato A e voleva sentirla tutta. Insomma, arrivavamo al mare verso metà pomeriggio quando ormai tutti avevano già preso l’ombrellone ed era ora di far merenda.
Mi ricordo la pesca che cadeva nella sabbia. Mi ricordo le urla di mia mamma fra il vociare dei bagnanti: “Non puoi fare il bagno! T’ho detto che devi giocare a riva, perché hai mangiato da poco!”. Ma io avevo sempre mangiato da poco, perché lei mi faceva mangiare continuamente.
Mi ricordo la sabbia bagnata che strisciava sotto l’elastico del costume, il costume che tirava nelle cosce, nella pancia, nei fianchi. Mi ricordo la voce degli angeli della Publifono. Che genio quello che l’aveva inventata nel 1946! Faceva stare tranquille quindici chilometri di mamme sulla costa adriatica: “Attenzione, prego, è stato ritrovato un bambino di nome Marco, indossa un costumino azzurro, i genitori sono pregati di venirlo a ritirare al bagno numero 35, da Quinto!”. Li ritrovavano tutti quelli che si perdevano: i bambini curiosi, i nonni un po’ storditi, ma anche le mogli, i mariti… “Ferragosto, amico mio non ti conosco! Ferragosto, l’amore nasce a prima vista!”.
Il mare di Rimini, che mi ha dato i miei primi contributi INPS da adolescente, coi lavori stagionali che iniziavo appena finiva la scuola. Nata in una famiglia che all’epoca era dedita solo e interamente al lavoro – non si capisce sennò come avrebbero potuto mandare avanti contemporaneamente un’osteria, un bar, un piccolo negozio di alimentari, un’impresa edile, un sacchettificio, senza dimenticare il lavoro nei campi coltivati a grano, gli alberi da frutto e le vigne; una famiglia che aveva rapidamente sostituito il concetto di “prima il dovere e poi il piacere” con uno più sintetico e produttivo: “sol o il dovere” – erede io di questi solerti lavoratori, a sedici anni debuttavo già come apprendista commessa in un negozio d’abbigliamento molto carino in via Trieste, a Marina Centro.
I proprietari mi avevano quasi presa per figlia e mi insegnavano cose che mi tornano utili ancora oggi a riconoscere un filato dall’altro, una buona confezione dalla “robetta”. Per lo più annoiata dietro le scansie, perché le clienti il pomeriggio andavano a spiaggia, mi arrabbiavo molto quando alle sette di sera una signora si affacciava, “per buttare uno sguardo”, e tutte dietro a lei come mosche si accalcavano nel negozio, “giusto giusto un’occhiatina”, col risultato che ogni giorno uscivo dal negozio due ore dopo del mio orario. E l’apprendista gli straordinari non li aveva.
Poi venne il chiosco sulla spiaggia, poi il pub notturno, un anno ci fu anche il negozio di souvenir e articoli da spiaggia e vari. I turisti d’estate al mare possono chiederti qualunque cosa, l’articolo inimmaginabile, forse nemmeno esistente. Io sgranavo gli occhi verso la proprietaria, che si alzava di malavoglia dalla sedia sul passeggio, ciondolava in mezzo alle corsie affastellate di oggetti senza neanche degnarmi di uno sguardo, e si infilava dietro una porticina e tornava trionfante: “Vieni qua va là”. Vieni qua va là: questa ambigua locuzione, che confonderebbe chiunque non sia un vero romagnolo, voleva dire che lei, quell’articolo, ce l’aveva.
Poi finalmente arrivava settembre, che per me chiudeva tutti i giochi, non ne volevo più sapere di mare, caldo, caviglie gonfie, orari estenuanti, pelle arsa, fatica, amici persi, proprietari malati di nervi e neanche troppo simpatici. Ma sono tutti isterici quelli che lavorano al mare? – mi chiedevo. Sarà il vento che solleva la sabbia? La paura che non venga nessuno? Sarà quello stare appesi a un filo, che li guasta? Lavorare troppo, o troppo poco? E intanto mi promettevo che non l’avrei fatto mai più. E invece l’anno dopo…
Perché, se fai parte di quella tribù di gente che il lavoro ce l’ha nel sangue, non puoi abbatterti, sei un soldato: quando serve si parte. E come fanno senza di noi? Quello che c’è da fare si fa, volente o nolente, capace o meno.
Sentivo i comandi che vociavano da dentro, e dicevano anche: – Chi sei, “comodini”? – La fatica rende forti e piangere fa gli occhi belli – Se l’ha fatto qualcun altro potrai pur farlo anche te – Si prova, se sbagli una volta si rifà, si rifà sempre meglio finché non si impara – La pazienza è la virtù dei forti – Che cosa fai ancora lì con la bocca aperta?
Le voci mi prendevano in giro, ridevano di me, ridevano di tutto.
– Stella bella, impara a guardare sempre avanti! Ce ne siamo inventate tante noi per sopravvivere, di tutti i colori ne abbiamo fatte! E siamo ancora qua! Ahahaha…
Facevamo la pida, tutte le sere. Era il nostro pane quotidiano, sempre la pida. Mangevamo fuori perché il tavolo lo lascievamo ai bagnanti. Mettevamo una vela vecchia stesa in terra, col tegame del brodetto, perché mio babbo faceva il pescatore e aveva sempre il brodetto, e ci mettevamo lì tutti seduti, senza piatti, a bagnare in quel tegame, per insaporire la pida.
Chi parla è la Maura Calderoni di Bellaria. Nella sua vita ha scritto anche un libro: “Come era bella la mia gente. Immagini della gente bellariese nella prima metà del Novecento”. Loro affittavano ai bagnanti già prima della guerra, il suo babbo aveva una piccola barca a vela, la “Rondinella”, portava i turisti a spiaggia e poi via nelle acque calme dell’Adriatico.
Quel turismo nobile, elegante, nato sul finire dell’Ottocento, che aveva battezzato Rimini come una delle più prestigiose località balneari d’Europa, con il Kursaal e il Grand Hotel che brillavano come due stelle sulla riviera, veniva pian piano sostituito dal turismo di massa favorito dal regime fascista con la costruzione di alberghi, pensioni, villini e le famose colonie fuori da Marina Centro. I turisti venivano eccome, facevano girare l’economia anche nei piccoli paesi della costa.
Guasi tutti ancora stavan nella capanna e invece io avevo la casa coi vetri, con le porte e coi vetri, perché dovevamo fittare, e noi andevamo nella capanna e dormivamo in terra su dei pagliericci. Fittavamo a dei bagnanti di Bologna, forse era un rettore dell’Università, dal 1924… Quelli del posto non andavano mai a fare il bagno di giorno, perché il costume non l’avevano, andavano alla sera con un sottoveste rappezzato e pensavano chissà che il bagno lo potessero fare solo le bagnanti. E io c’andavo dietro che ero bambina, però volevo un costume, che mi vergognavo con le mutande…
Mio marito, che è morto, una gran brava persona, buono, buono, però prendeva poco, si guadagnava poco. La mia zia Delmira mi diceva “Tu un marinaer? Eh, mo ut toca andè vi sla cassetta”. Perché le mogli dei pescatori andavano tutte a vendere il pesce con la cassetta. “Mo metti su un negozino, metti su un negozino, vendi le carriole, i palloni” – mi ricordo che mi diceva così mia mamma – “Dai che t’aiuto anch’io, metti su un negozino”. Aveva ragione la mia mamma, c’era il guadagno. Mi ha permesso di fare la casa nuova, se no col pescatore non si faceva.
Quella volta era il giorno dei Santi, che poi si usava, il giorno dei Santi, mangiare i maccheroni con le patate, e abbiam sentito tremare i vetri, e siamo usciti con le forchette in mano, Maria hai sentito, Maria? C’erano di fuori anche gli altri vicini, mo sè che sarà, sè che sarà, dopo abiam sentito che avevano bombardato Rimini, era il 2 novembre del 1943.
Rimini è stata la seconda città italiana più distrutta dalla Seconda guerra mondiale dopo Montecassino. C’erano rimaste solo macerie dopo la battaglia per lo sfondamento della Linea Gotica. Quando gli Alleati l’hanno liberata, hanno trovato un paesaggio spettrale: migliaia di persone erano morte negli scontri e nei bombardamenti, spiagge e mare minati, porti inaccessibili dalle navi, attrezzature turistiche distrutte, disoccupazione, miseria assoluta, i senzatetto riempivano le vie della città.
Durante la guerra mio marito era ufficiale pilota, ha fatto quattro anni nei bombardieri, con duemila ore di bombardamenti notturni e lui soprattutto era diretto a Malta e in Africa. È andato qualche volta anche in Russia. Ricordiamo un po’, perché son stati giovani che non hanno dichiarato guerra ma l’hanno subita. E dovevano farlo. Questo è il fatto che la gente non considera molto. Questi giovani che vengono a dire “ma lui era fascista”… Ma che fascista! Era il ventennio!
Ottavia Ugolini: la figlia dell’amministratore della proprietà dei Conti Spina di Rimini, che avevano allora 34 poderi. San Giovanni, allora, era tutto degli Spina. La guerra non aveva turbato troppo le loro esistenze.
C’era solo miseria, la gente andava alla carità. Le sette di sera, sentivi al campanello – che noi avevamo il campanello, con la campana proprio – mi fa la carità? Noi per fortuna dei grandi disagi non li abbiamo mai conosciuti. Non si sciupava, pur avendo tutto, assolutamente.
La mamma guidava il cavallo, perché noi andavamo al mare, sempre. Al mare non c’era niente, però chissà perché per noi c’era una gabina, di legno, con un ombrellone tirato fuori per caso, perché, a Cattolica, la spiaggia di Cattolica era vuota. Siamo cresciuti bene, una famiglia piuttosto rigida, perché alla talora si chiudeva la porta e poi la sera si diceva il rosario.
Io mi son diplomata maestra facendo i sette anni delle scuole per l’insegnamento musicale. Poi mi sono sposata. Abbiamo avuto anche il matrimonio fatto in casa, ché si faceva tutto in casa. Abbiam fatto il nostro viaggio con la 500, la prima 500 di San Giovanni. Ho sposato un medico veterinario, molto buono, molto bravo, serio. Aspetto un bambino che si chiama Mauro, oggi medico, e dopo quattro mesi aspetto un altro bambino. Allora mio marito mi ha fatto un dolce discorso, e mi ha detto: “Senti Ottavia, i bimbi hanno bisogno di una mamma”. Erano i pensieri di allora, che la famiglia aveva un grande valore.
Io insegnavo a Misano, ero di ruolo, ho detto: “Senti Alfredo hai ragione, alla fine dell’anno scolastico rinuncio”. E non ho fatto più scuola. Ai tempi di oggi mi avrebbe fatto comodo invece far scuola, perché i tempi son diventati molto più difficili.
Io da sola, rimasta vedova, ne ho affrontate tante. Lui aveva paura che non sapessi navigare, perché era abituato a comperarmi anche il limone. La sua preoccupazione era quella che io non ce la facessi a pagare il mutuo. Ho pagato il mutuo, tutti i rifacimenti, perché nei condomini, che dopo ci siamo trasferiti in città, è una spesa continua. E perché? Perché so gestirmi.
Ottavia non era la sola a saperlo fare. Nonostante le difficoltà lasciate dalla guerra, già nel 1945 nella riviera ricominciavano ad arrivare i primi turisti. Torniamo un momento a Bellaria, dove nei primi anni Cinquanta conquista la zona al mare, e la tiene per più di sessant’anni, la storica bagnina Speranza Magnani.
Io son di una famiglia modesta, povera si può dire, perché eravamo otto fratelli, papà pescatore, la mamma e più la nonna, eravamo undici in famiglia. Eravamo sa. E si viveva però, perché il pesce non ci mancava, che mangiavamo quello.
Un giorno vediamo che si apre la porta, si presentan due tedeschi col mitra: “Arbeit! Arbeit!”. Mio babbo stava cuocendo la piadina, io la facevo, girata dall’altra parte. Quando vedo così guardo il babbo, lui lascia andare il coltello che cuoce la piadina, con la lingua fuori e gli viene giù la bava dalla bocca. Allora io ho capito che lui faceva finta di non esserci con la testa… Allora mi giro e grido ai tedeschi: “Papà niente arbeit, perché papà niente capire! Io guardare papà”. Gli dicevo: “Io guardare papà!”. Insomma dopo un po’ ridevano fra di loro, si vede che ci tiravano in giro, chi lo sa. Ci han lasciato stare e son andati via.
Del ’46 mio marito ha cominciato a dire: “Ci vogliamo sposare”. Ma no, sposarsi adesso, che è passata la guerra… Io non avevo un corredo, niente… “È lo stesso è lo stesso se non ce l’hai il corredo”. E ci siamo sposati. Lui aveva una patente da motorista navale, a quel tempo cercavano per andare a sminare il mare, ma il suo babbo, il mio suocero, non voleva perché era pericoloso. Avevamo piacere, anche i suoi genitori di lui, che andasse con la nostra barca a pescare, che era meno pericoloso, era più a casa, ma lui voleva stare con i suoi amici. Del ’49, il 20 dicembre, erano venuti a riva dalla pesca. Non avevano pescato niente. Il capobarca, che era un suo amico, più che fratelli, era venuto a casa e m’aveva portato i vestiti a lavare di mio marito, la tuta da motorista. Gli ho tirato la spazzola lontano, e dico: “Non credo che non voglia smettere! Spero che sia l’ultima volta che la lavo questa tuta!”. È stata l’ultima volta.
Son partiti alle sei e mezza del pomeriggio, erano due barche, una davanti e una dietro. Quella davanti aveva il radar, però non aveva i fanali che vedevano, e ci hanno urlato, alla barca di mio marito: “Passate avanti voialtri che noi non abbiamo i fanali!”. Son passati avanti dopo cinque minuti son saltati per aria per una mina. Da otto due si son salvati, gli altri son tutti morti. Del ’49 il 20 dicembre. Il più vecchio aveva 33 anni, tutti 27, 28 e 26 anni. Sono morti tutti, poveretti.
Un cugino di mio marito allora m’ha detto: “Maria” – sì perché io mi chiamo Speranza, ma tutti mi chiamano Maria, io non lo so perché. E la mia sorella invece, che si chiama Maria, e tutti la chiamano Luigina? Ah guarda! Fatto che sta che lui mi ha detto: “Maria, ci sarebbe delle zone che la Capitaneria le dà in affitto! Devi andare a parlare con il comandante, a raccontargli che sei vedova!”. Allora mi son fatta coraggio e sono andata, con quel fazzoletto nero che si usava allora. “Signora si sieda, che cos’è che ha bisogno?” Dico: so comandante che avete delle zone da dare in affitto, io siccome sono vedova con un bambino di tre anni da crescere… Lui appena che ho detto così ha dato un pugno sul tavolo. “Ma è mai possibile” – dice – “che appena hanno una disgrazia devono venire qui a chiedere?”. Allora io quando ho sentito così son rimasta tanto male… bongiorno! e sono andata via. Allora andavo giù li, mi asciugavo gli occhi, incontro un prete, un prete grosso, mi fa “Signora cosa è successo?”. Niente, niente. “No, no, si fermi, io voglio sapere che cosa è successo”. E gli ho raccontato, pressappoco. Fatalità: era il prete della parrocchia della Capitaneria, lui dice: “Lei stia lì non si muova. Fra dieci minuti son da lei”. Io non lo so che cosa ci abbia detto al comandante, esce fuori e mi dice “Lei avrà la zona”. Mi commuovo anche adesso, guarda, perché è stato bravo, bravo.
E fatto sta che m’hanno dato questa zona. E da allora son qua ancora. Una volta, sarà stato del ’53, ho avuto quattro tedeschi, qui. Io li odiavo… Allora metto su l’ombrellone e vado a portarci gli sdrai, e uno mi fa: “Permette signora?’. Non aveva una gamba. “Lo sa, questa gamba io l’ho persa a Bordonchio” e io fra i denti ho detto: l’avessi persa anche l’altra… “Io volevo sapere che opinione avete voi dei tedeschi”. Io l’ho guardato bene e poi gli ho detto: devo essere sincera? io poco bella, personalmente. Perché avevo una paura dei tedeschi più che degli aerei quando bombardavano. Perché erano cattivi con noi, popolazione, e me m’è rimasta quella paura lì. E dopo li ho avuti, dei tedeschi, gente che m’han voluto anche bene, e li ho rispettati, ma quello lì, quando m’ha detto che la gamba l’aveva lasciata a Bordonchio, io non c’ho visto più.
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Il testo è liberamente ispirato al documentario “Una storia comune. Donne sull’orlo di un miracolo economico” di Stefano Bisulli e Roberto Naccari (Italia, Produzione Cinematica, 2008).
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Musiche
Secondo Casadei – “Appassiuneda”
Giuni Russo – “Un’estate al mare”
Adriano Celentano – “Il tempo se ne va”
Little Tony – “La fine di agosto”
Tito Schipa – “Vivere”
Luis Vinicio y su Orquesta – “Tango delle Capinere”
4 Marzo 2021
| Racconti d'autore
Storie di donne sull’orlo di un miracolo economico
Testo inedito di Nicoletta Fabbri
Vittorio Ferorelli e Rita Giannini